Professore Assistente
dell’Università di Bologna.
RIASSUNTO: Nel contesto della
responsabilità civile degli rapporti di consumo, è analizzata l'armonizzazione
di parametri giuridici di responsabilità per “prodotto conforme” ma dannoso tra
i sistemi europei e americani e, in vista del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), si propone
un'interpretazione unitaria delle norme applicabili. Pertanto, gli standard
legali in materia di sicurezza dei prodotti e responsabilità del fabbricante
nell'Unione europea e gli Stati Uniti, la distinzione tra prodotto difettoso e
il “prodotto conforme” ma dannoso sono esaminati. I risultati hanno confermato
la necessità di uniformizzazione delle regole nell'Unione europea a definire un
prodotto “ragionevolmente sicuro”, così come la responsabilità del produttore
secondo la decisione del legislatore sul livello minimo di stabilimento di
sicurezza o sul limiti massimi, nel qual caso non c’è responsabilità.
PAROLE CHIAVE: Diritti dei consumatori;
Responsabilità del produttore; Prodotto conforme; Transatlantic Trade and Investment Partnership.
RESUMO: No contexto da responsabilidade civil das relações
de consumo, analisa-se a harmonização dos parâmetros de responsabilidade por
produto conforme, mas danoso, entre os sistemas europeu e americano e, na
perspectiva do Acordo de Parceria Transatlântica de Comércio e Investimento
(ATP), propõe-se uma interpretação unificada das regras aplicáveis. Para tanto,
são examinados os padrões jurídicos relativos à segurança do produto e à
responsabilidade do fabricante na União Europeia e nos Estados Unidos, a
distinção entre produto defeituoso e o produto conforme, porém danoso.
Conclui-se pela necessidade de uniformização de regras nos países da União
Europeia para definição de um produto “razoavelmente seguro”, assim como para a
responsabilidade do fabricante segundo a opção do legislador pelo
estabelecimento de nível mínimo de segurança, ou de um limite máximo, caso em
que não haverá responsabilidade.
PALAVRAS-CHAVE: Direito do consumidor; Responsabilidade do
fabricante; Produto conforme; Acordo de Parceria Transatlântica de Comércio e
Investimento.
ABSTRACT: In the context of the liability of consumer
relations, it analyzes the harmonization of legal parameters of liability for
harmful, “compliant product” among the European and American systems, and, in
view of the Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), proposes a
unified interpretation of the applicable rules. To this end, the legal
standards regarding product safety and manufacturer liability in the European
Union and the United States, and the distinction between the defective product
and the harmful, “compliant product” are examined. The
results confirm the necessity of standardization of rules in the European Union
to define a product “reasonably safe”, as well as the responsibility of the manufacturer
according to the decision of the legislature on the minimum level of security
establishment or the maximum limits, in which case there will be no liability.
KEYWORDS: Consumer Law; Manufacturer liability; Compliant product; Transatlantic Trade and Investment Partnership.
A trent’anni dall’adozione della dir. 85/374/CEE, che ha
introdotto nei Paesi dell’Unione Europea una disciplina armonizzata della
responsabilità del produttore, e a trentadue dall’avvio del c.d. “nuovo
approccio”[1] (dir. 83/189/CEE), mediante il quale è
stato avviato quel processo di armonizzazione degli standards di sicurezza attualmente oggetto di un processo di
un’ulteriore implementazione e razionalizzazione (New Legislative Framework) di cui dà ampio conto The Blu Guide on the Implementation of EU Product Rules, pubblicata dalla Commissione Europea nel 2014, il tema
della sicurezza dei prodotti e della responsabilità del fabbricante non
sembrano aver conosciuto negli ordinamenti europei e, in particolare in quello
italiano, quella rilevanza che, da ormai cinque decenni caratterizza
l’esperienza giuridica nordamericana[2].
Cionondimeno, l’imminente conclusione del Transatlantic
Trade and Investment Partnership (T.T.I.P.) o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti[3], mediante il quale
Unione Europea e Stati Uniti mirano ad armonizzare i reciproci standards di sicurezza dei prodotti e a
creare uno spazio economico comune, impone all’interprete l’esigenza di una
rinnovata attenzione nei riguardi di articolati sistemi di norme (quello sulla
responsabilità del fabbricante e quello che può sinteticamente indicarsi con il
termine di legislazione sulla sicurezza dei prodotti) tra loro profondamente
interconnessi[4] e destinati ad essere interessati da
modificazioni riconducibili in via diretta o indiretta proprio dalla annunciata
soppressione delle cosiddette barriere non tariffarie, ossia di quelle
disomogeneità ed incongruenze che tuttora caratterizzano i diversi standards di sicurezza dei prodotti
negli ordinamenti.
In quest’ottica l’analisi comparatistica del sistema della
sicurezza dei prodotti e della responsabilità del fabbricante nell’Unione
Europea e negli Stati Uniti assume una valenza che va ben oltre la finalità di
individuare elementi di differenziazione e punti di contatto; essa, nella
prospettiva di una uniformazione degli standards
di sicurezza richiesti ai fini dell’immissione
in commercio dei prodotti in uno spazio economico comune, appare un
imprescindibile presupposto per l’individuazione di questioni già da tempo
emerse nell’ordinamento statunitense e non ancora compiutamente delineate nel
nostro sistema legislativo e giurisprudenziale. Tra queste, merita sicuramente
particolare attenzione quella della responsabilità del fabbricante per i danni
cagionati da un prodotto conforme
a standards di sicurezza legislativi. La sua soluzione,
infatti, impone all’interprete una lettura sistematica e coordinata delle
regole che governano la responsabilità civile del fabbricante e di quelle che
definiscono i requisiti di sicurezza dei prodotti, adottando un approccio consolidato
nell’esperienza giuridica statunitense e reclamato con crescente intensità dal
legislatore dell’Unione Europea. L’imminente conclusione del Transatlantic Trade and Investment Partnership (T.T.I.P.) suggerisce,
inoltre, di allargare l’ambito di osservazione
ad una prospettiva ancor più ampia e complessa di quella che abbracciava
il solo sistema giuridico dell’Unione Europea; una prospettiva nella quale diviene
imprescindibile l’esigenza di dare vita ad un sistema di regole
uniformi che consenta di superare la frammentazione statale delle discipline e
fornire agli operatori economici un quadro normativo di riferimento unitario.
Il termine responsabilità del produttore evoca l’idea di
un obbligo risarcitorio che scaturisce da un danno provocato a causa
dell’utilizzo di un prodotto che presenti anomalie rispetto ad un ideale
modello conforme alla regola dell’arte. Per lungo tempo questo genere di
situazioni venivano ricondotte all’applicazione delle norme generali in materia
di responsabilità civile[5]; la
necessità di concepire un sistema di regole specificamente conformate in
funzione delle peculiarità che caratterizzano il rapporto tra coloro che sono
danneggiati da un prodotto ed il suo fabbricante costituisce il riflesso delle
profonde trasformazioni che hanno interessato la progettazione, la
fabbricazione e persino la commercializzazione dei prodotti a partire
dall’inizio degli anni Sessanta, determinando in quasi tutti i settori
merceologici un passaggio dalla dimensione individuale ed artigianale della
produzione a quello della fabbricazione su larga scala, in serie e secondo
procedimenti standardizzati[6]. Nel
panorama attuale, infatti, è possibile individuare categorie di prodotti che
scaturiscono necessariamente da un processo di progettazione, fabbricazione e
commercializzazione su larga scala organizzato secondo modalità standardizzate,
come, ad esempio, le automobili, i farmaci, i componenti elettronici ed i
telefoni cellulari. Per altre tipologie di prodotti, invece, continuano a
coesistere processi di fabbricazione artigianali accanto a quelli di
fabbricazione su larga scala e standardizzati, che, in ogni caso, assumono una
rilevanza preminente. È il caso, ad esempio, degli alimenti, degli indumenti,
dei complementi di arredamento o di alcune tipologie di giocattoli, che,
sebbene fabbricati in prevalenza mediante modalità industriali e
standardizzate, continuano in parte a scaturire da attività individuali ed
artigianali.
In prima approssimazione sembra possibile affermare che
l’idea di concepire regole particolari che governano il risarcimento dei danni
provocati dall’utilizzo di un prodotto costituiscano espressione di un’esigenza
che matura necessariamente in un contesto nel quale progettazione,
fabbricazione e commercializzazione di massa hanno trasformato profondamente il
rapporto che l’utilizzatore instaura con il prodotto e con il suo fabbricante o
con colui che lo immette sul mercato. Progettazione, fabbricazione e
distribuzione in serie di un prodotto fanno sì che anche la presenza di
un’anomalia assuma a sua volta carattere seriale e di larga scala conseguendo una
diffusione proporzionale a quella del prodotto stesso. In altri termini, quel
difetto di progettazione, fabbricazione ed informazione che in un sistema di
produzione artigianale ed individuale era destinato a rimanere circoscritto
alla dimensione limitata dei rapporti che il singolo fabbricante avesse
instaurato con gli utilizzatori, appare oggi enormemente amplificato laddove la
produzione di massa determina l’immissione in commercio di ingenti quantità di
prodotti tutti dotati di analoghe caratteristiche e destinati ad una platea di
utilizzatori assai vasta.
Proprio questo mutato contesto di fatto è alla base di
quella istanza di modificazione del sistema giuridico che ha imposto di
sottrarre il rapporto tra produttore e utilizzatore (o danneggiato) alle regole
comuni che governano la responsabilità civile per disciplinarlo secondo regole
speciali che tengano conto delle peculiarità che caratterizzano questo
rapporto. Così, sia nell’Unione Europea, sia negli Stati Uniti, la
responsabilità del produttore è stata regolata secondo modalità che hanno
condotto all’abbandono della responsabilità per colpa in favore di sistemi di
responsabilità oggettiva: la dir. 85/374/CEE sancisce la regola secondo cui la
responsabilità del produttore si fonda sulla dimostrazione dell’esistenza di un
nesso causale tra il danno subito e l’utilizzo del prodotto (artt.1e 4)[7]; in
termini analoghi si esprimono sia la section 402 A del Restatement Second del
1965 il Chapter I del Restatement (Third) of Torts del 1998, nei quali sono individuate
le linee guida ed i principi generali che emergono del diritto statunitense.
Nei sistemi di norme concepiti al fine di regolare il
problema dell’allocazione dei costi derivanti dai danni provocati da prodotti
di larga diffusione si compendiano due esigenze distinte, ma strettamente
correlate: quella di offrire una adeguata tutela agli utilizzatori e quella di
promuovere un’efficiente funzionamento del mercato ed una equilibrata
competizione tra gli imprenditori che operano in uno spazio economico comune[8]. Sotto
il primo profilo la maggiore rispondenza della disciplina alle esigenze di
tutela del danneggiato emerge laddove ad esso non è richiesto di provare una
colpa in capo al danneggiante, ma solamente il carattere difettoso del
prodotto, ossia la circostanza che questo non possieda la “sicurezza che ci si
può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze” (art. 6,
dir. 85/374/CEE) o, secondo una formula propria del diritto statunitense, che
il prodotto risulti unreasonably dangerous (section 402 A, 1 del Restatement
Second). In una simile prospettiva al danneggiato è sufficiente provare il
difetto, il danno e l’esistenza di un rapporto causale tra di essi, mentre
grava sul produttore l’onere di provare i fatti che possono escludere la sua
responsabilità per i danni causalmente riconducibili all’utilizzo del prodotto.
Il fabbricante, quindi, è chiamato a dimostrare la non difettosità del
prodotto, fornendo una prova che nel sistema statunitense si risolve nella
dimostrazione della conformità del prodotto stesso alle regole comunemente
riconosciute ed adottate dai fabbricanti (state of the art defense)[9] e, in
quello ideato dalla dir. 85/374/CEE impone di provare la sussistenza di quelle
cause di esclusione della responsabilità tassativamente indicate dall’art. 6,
dir. 85/374/CEE.
È evidente che in un sistema nel quale la responsabilità
del fabbricante presuppone l’accertamento della difettosità del prodotto e
quindi della sua non rispondenza ai requisiti di sicurezza che dovrebbero essere
presenti in un modello ideale di prodotto ragionevolmente sicuro si impone
l’esigenza di individuare criteri oggettivi e condivisi che consentano di
circostanziare nella misura più stringente possibile il generico riferimento
alla “sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le
circostanze” a cui si riferisce il legislatore dell’Unione Europea o alla
irragionevole pericolosità (unreasonably
dangerous) che costituisce il parametro di riferimento assunto dal “diritto
vivente” nordamericano. In altri termini, quelle esigenze di armonizzazione
giuridica che costituiscono il presupposto indispensabile per un efficiente
funzionamento del mercato e un equilibrato svolgimento della competizione tra
gli operatori economici postulano la creazione e la diffusione di “regole
tecniche” nelle quali il legislatore trasfonda il concetto di stato dell’arte
delineando con dettaglio e precisione quel modello ideale di prodotto che
costituisce il parametro per valutare in concreto la difettosità dei singoli
prodotti dal cui utilizzo derivi un danno. Ciò dovrebbe comportare una
correlativa riduzione del potere discrezionale del giudice, il quale, in linea
di principio, dovrebbe essere chiamato ad allinearsi alle valutazioni espresse
dal legislatore e compiutamente definite negli standards tecnici.
Nel contesto normativo attuale, in effetti, risulta
sempre più diffusa una “normazione tecnica” che definisce compiutamente le
caratteristiche strutturali e gli standards di sicurezza dei prodotti e
rappresenta un punto di riferimento imprescindibile al fine di valutarne la
sicurezza. Proprio le regole che governano la sicurezza dei prodotti, pertanto,
risultano determinanti al fine di promuovere quegli obiettivi di efficiente
funzionamento del mercato ed equilibrata competizione tra gli imprenditori che
operano in uno spazio economico comune; obiettivi che, tanto il legislatore
europeo quanto quello statunitense, dichiarano esplicitamente di perseguire[10].
Sia nella legislazione dell’Unione Europea,
sia in quella statunitense, occorre operare una netta distinzione tra prodotti
che sono stati interessati dal fenomeno della normazione tecnica e quelli che,
invece, ne sono rimasti estranei. In quest’ultima categoria ricadono, ad
esempio, i vestiti[11],
le scarpe[12], larga parte dei
complementi d’arredamento[13],
alcuni oggetti di cancelleria. Per questi prodotti il legislatore non detta
norme che impongano l’adozione di particolari caratteristiche tecniche e
costruttive; il fatto che il
prodotto offra un livello di sicurezza ragionevole, quindi, può essere ricavato
facendo riferimento alle ragionevoli aspettative del consumatore ed alle regole dell’arte.
Per altre categorie di beni, invece, la
regola generale secondo cui deve considerarsi
difettoso il prodotto
che non garantisca la sicurezza
che il consumatore può “legittimamente attendere” è stata rigorosamente
circostanziata: infatti nell’Unione Europea e, ancor prima, negli Stati Uniti,
il legislatore ha predisposto complessi sistemi di regole che definiscono
dettagliatamente le caratteristiche che determinati prodotti debbono possedere
per poter essere considerati sicuri. A questo proposito gli interpreti statunitensi hanno utilizzato
l’espressione particolarmente incisiva di “intrusione” di regole tecniche nelle
norme giuridiche proprio per evidenziare come, con riferimento a determinate
categorie di prodotti, le regole dell’arte siano state trasfuse direttamente in
norme di legge che contengono dati tecnici o che rinviano a standards predisposti da enti di
normalizzazione accreditati. Queste previsioni costituiscono un fondamentale
elemento unificante che consente di realizzare l’armonizzazione della
responsabilità del produttore in un sistema giuridico unitario composto da
differenti ordinamenti statali; esse, infatti contengono “pre-valutazioni”
tecniche che incidono profondamente sull’applicazione delle norme in tema di
responsabilità civile[14] in quanto forniscono uno standard
unico sulla base del quale valutare la difettosità del
prodotto delle diverse giurisdizioni statali.
Nell’Unione Europea l’obbligo di immettere
sul mercato prodotti sicuri viene sancito in termini generali, per tutte le
tipologie di prodotto, dalla dir. 2001/95/CE (artt.
1,2e 3) (c.d. legislazione orizzontale) ed è costantemente
ribadito nella c.d. legislazione verticale[15],
ossia nelle singole direttive
specificamente riferite a determinate categorie di beni, come, ad esempio, i
farmaci (dir. 2001/83/CE)[16],
i presidi medico-chirurgici (dir. 2007/47/CE)[17],
i cosmetici (dir. 76/768/CEE)[18],
il materiale elettrico (dir.
2006/95/CE)[19], le bombole a gas, gli
autoveicoli (dir. 2007/46/CE), i motoveicoli a due e tre ruote (dir.
2002/24/CE), gli pneumatici (dir. 1992/ 23/CE; dir. 2001/43/CE; 2005/11/CE) ed
i giocattoli (dir. 2009/48/CE)[20].
L’obbligo di sicurezza enunciato in termini generali dalla legislazione
“verticale” e dalla legislazione “orizzontale” (dir. 2001/95/CE) è assai di
frequente circostanziato da “norme tecniche armonizzate”. Proprio mediante
questo strumento si realizza la c.d. armonizzazione giuridica che il
legislatore dell’Unione Europea ha inaugurato a partire dalla c.d. “direttiva
bassa tensione” (dir. 73/ 23/CEE del 19 febbraio 1973)[21] e
ulteriormente sviluppato con il c.d. “nuovo approccio”[22]
(dir. 83/189/CEE), dando vita ad un articolato sistema di direttive settoriali
riguardanti determinate tipologie di prodotti e particolari fattispecie di
rischio. Così, per ogni categoria di prodotti regolati da una direttiva, la
Commissione europea conferisce un mandato agli Enti europei di Normazione
(ossia al CEN (Comitato europeo di normalizzazione), al CENELEC (Comitato europeo
di normalizzazione elettrotecnica)[23],
o all’ETSI (Istituto europeo norme e telecomunicazioni)[24]
che operano di concerto con il Comitato permanente (artt. 5 e 6, dir.
34/98/CE). Le norme tecniche elaborate ed approvate dagli organismi europei di
normalizzazione vengono pubblicate, in seguito, sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea (G.U.C.E.) e nella
Gazzetta Ufficiale di ogni Paese aderente[25].
Da questo momento la loro adozione come
norme tecniche nazionali è obbligatoria per gli enti di normalizzazione istituiti in ciascuno
degli Stati membri che
dovranno riprodurre a livello nazionale le norme tecniche corrispondenti a
quelle emanate dagli enti di normazione europei[26].
Così, ad esempio, nel nostro ordinamento gli enti di normalizzazione nazionali
quali l’U.N.I. (Ente
Nazionale Italiano di Unificazione)[27] ed il C.E.I.
(Comitato Elettrotecnico Italiano) sono tenuti a riprodurre le regole
tecniche armonizzate elaborate dagli enti di normalizzazione europei; lo stesso
accade negli altri ordinamenti che aderiscono all’Unione Europea e nei quali
gli enti di normalizzazione nazionali riproducono il contenuto delle norme
tecniche elaborate dal CEN o dal CENELEC[28].
In questo modo la sicurezza dei prodotti
viene definita secondo uno standard comune
a tutti i paesi che fanno parte dell’Unione Europea.
La situazione appena descritta con
riferimento all’Unione Europea si presenta in termini analoghi nel contesto
statunitense. Anche in quell’ordinamento, infatti, l’obiettivo di garantire ai
consumatori una protezione contro i rischi irragionevoli associati all’utilizzo
dei prodotti è stato perseguito in termini generali attraverso l’introduzione
del Consumer Product Safety Act (1972);
al tempo stesso, con riferimento a categorie di prodotti particolari, il legislatore
federale è intervenuto con discipline specifiche: è il caso, ad esempio,
del Federal Food, Drug, and Cosmetic
Act (1906), con il
quale è stata regolamentata la sicurezza dei farmaci, degli
alimenti e di altre
categorie di prodotti dai quali possono scaturire pericoli per la salute[29], dell’Highway Safety
Act (1966), che è intervenuto a regolare la sicurezza della circolazione
stradale e le caratteristiche costruttive degli autoveicoli, del Communications Act del 1934, nel quale
sono contenute importanti disposizioni connesse alla protezione della salute ed
al pericolo dell’esposizione a campi elettromagnetici.
Per ciascuna delle legislazioni indicate è
stata istituita una particolare Agency legittimata ad emanare regulations che
specificano i generici
obblighi di sicurezza sanciti nelle fonti legislative “di primo
livello”, definendo le caratteristiche tecniche necessarie per conseguire un
grado di sicurezza ragionevole. Così la Consumer
Product Safety Commission[30] definisce
gli standards di sicurezza di diversi
prodotti soggetti alla disciplina generale sulla
sicurezza prevista dal Consumer
Product Safety Act;
la Food and Drug Administration (F.D.A.)[31] emana gli standards tecnici che circostanziano le
previsioni contenute nel Federal Food,
Drug, and Cosmetic Act; la National
Highway Traffic Safety Agency (N.H.T.S.A.)[32]
definisce i requisiti di sicurezza degli autoveicoli specificando i principi
sanciti nell’Highway Safety Act. Ciascuna
delle Agencies indicate emana a cadenza
annuale regulations che definiscono le caratteristiche di sicurezza relative
alle differenti tipologie di
prodotti che rientrano nella loro competenza. Tali regulations vengono
pubblicati sul Federal Register, che assolve
una funzione assimilabile a quella della Gazzetta ufficiale[33];
essi, inoltre, sono compendiati in un testo unico federale: il Code of
Federal Regulations (C.F.R.)[34],
che presenta una struttura corrispondente a quella dello United States Code (U.S.C.). Anch’esso, pertanto, è suddiviso
in 51 titles, che corrispondono alle medesime aree
tematiche secondo le quali è organizzato
lo United States Code (U.S.C.) e sono
a loro volta suddivisi in subtitles e
chapters[35].
Proprio la previsione di standards
di sicurezza armonizzati a livello federale costituisce l’elemento di
aggregazione ed armonizzazione intorno al quale in larga misura
si ricompongono le diversità di disciplina che caratterizzano la legislazione dei singoli Stati. Come osservato, il legislatore federale, infatti, fissa requisiti
generali di sicurezza con riferimento alle diverse
categorie di prodotti ed istituisce Agenzie federali (Agencies) legittimate ad emanare periodicamente complesse normative tecniche che
specificano nel dettaglio le caratteristiche necessarie affinché i prodotti
possono essere considerati sicuri. Lo stesso legislatore federale, poi,
attraverso le cosiddette clausole
di preemption[36] sancisce
la prevalenza degli
standards federali su quelli statali,
chiarisce in modo esplicito (express preemption) o implicito (implied preemption) se lo standard federale assume la valenza di
limite massimo di sicurezza (c.d. ceiling), rispettato il quale
non è possibile configurare un’azione
di responsabilità, ovvero se esso costituisce solo un limite minimo (c.d. floor), il cui rispetto non esime il produttore dalla responsabilità per i danni riconducibili
all’utilizzo del prodotto.
In un sistema così congegnato, il giudice
chiamato a decidere riguardo alla responsabilità del produttore è tenuto ad
“allinearsi” alle indicazioni fornite dal legislatore federale con riferimento
alla sicurezza dei prodotti e, in definitiva, ad emettere una decisione che
risulti coerente con le scelte operate da quest’ultimo. Proprio il rigoroso
rispetto del “percorso predefinito” tracciato dalla legislazione federale sulla
sicurezza dei prodotti costituisce il presupposto per addivenire ad un elevato
grado di armonizzazione, pur in presenza di una evidente frammentazione delle
regole che governano la responsabilità del produttore, di quelle in materia di class action
e di quelle che regolano
i c.d. punitive damages
nei diversi ordinamenti statali.
Anche il sistema delineato dal legislatore
nell’Unione Europea si caratterizza per la presenza di un “anello di
congiunzione”[37] tra la disciplina della
sicurezza dei prodotti e quella della responsabilità del produttore che può
essere colta con evidenza proprio con riferimento a quelle categorie di beni
interessate dalla normazione tecnica standardizzata.
Il problema dell’allocazione dei costi
derivanti dai danni provocati
dall’utilizzo di prodotti fabbricati in serie presenta una specificità assai
più ampia rispetto a quello del risarcimento dei danni provocati da prodotti
difettosi al quale sia la disciplina legislativa, sia l’interprete hanno
riservato un’attenzione preminente e, sotto alcuni profili, assorbente. Il
carattere insicuro, e quindi difettoso, del prodotto che cagiona un danno è
assunto quale presupposto indefettibile della responsabilità del fabbricante;
sembra, pertanto, che tale responsabilità possa scaturire solo laddove una “anomalia”
che si manifesta nell’ambito della progettazione, della fabbricazione o del
corredo di informazioni che dovrebbero accompagnare il prodotto determini una
irragionevole insicurezza dalla quale scaturisce un danno. Cionondimeno, è
emersa da tempo una piena consapevolezza circa la sussistenza dei rilevanti
pericoli che possono derivare dall’utilizzo di prodotti pienamente conformi
agli standards di sicurezza
individuati dal legislatore al fine della loro immissione in commercio. Così,
il consumo di prodotti derivati dal tabacco, l’utilizzo di autoveicoli,
l’esposizione alle onde elettromagnetiche emesse dal telefono cellulare,
l’ingestione di alimenti la cui conservazione ed igiene è conseguita anche
attraverso la presenza al loro interno di sostanze chimiche potenzialmente
dannose per la salute, infine l’assunzione di farmaci che, seppur
indispensabili, contengono sostanze capaci di scatenare rilevanti effetti
collaterali, costituiscono solo alcuni esempi di prodotti che conservano un
ampio margine di dannosità, pur risultando pienamente conformi
alle prescrizioni legali
che ne regolano la sicurezza e, in un certo senso, possono
essere considerati dannosi proprio perché perfettamente conformi e funzionali
alle finalità per le quali vengono utilizzati.
Sotto questo profilo emerge la fondamentale
importanza assunta dalla distinzione tra prodotto difettoso e prodotto dannoso.
Nella prima categoria ricadono i prodotti che risultino difformi rispetto alle
caratteristiche delineate dalle norme tecniche standardizzate o, ove queste non
siano presenti, definite
dallo stato dell’arte; nella seconda, invece,
rientrano i prodotti
dai quali possano
scaturire rilevanti danni
per coloro che li utilizzano o vengono a contatto
con essi. Le due categorie
coincidono solo occasionalmente:
il prodotto non conforme rispetto alle caratteristiche tecniche prescritte dal legislatore, e quindi difettoso, può sicuramente assumere
in alcune circostanze un carattere dannoso
(si pensi, ad esempio, all’automobile il cui difetto
provochi un incidente o al telefono cellulare difettoso che, per ipotesi, esploda durante
il funzionamento), ma potrebbe, in altre, risultare — quasi paradossalmente — completamente privo
di rischi (si pensi, ad esempio, all’automobile o al telefono cellulare non funzionante e per questo
motivo assolutamente privi
di rischi); al tempo stesso
il prodotto conforme
alle caratteristiche tecniche
prescritte dalla legislazione sulla sicurezza potrebbe
conservare significativi margini
di dannosità proprio
perché perfettamente funzionante. In quest’ultimo caso l’utilizzatore o colui che entra in contatto con il prodotto
si troverebbe a subire un danno derivante da un prodotto pienamente conforme agli standards legislativi di sicurezza ed utilizzato secondo modalità appropriate, ma, cionondimeno, caratterizzato da una elevata
capacità di produrre
danni.
Nel nostro ordinamento giuridico il
problema della allocazione dei costi derivanti dai danni provocati da prodotti conformi
agli standards di sicurezza non sembra emergere con una
sufficiente chiarezza né nell’analisi della casistica giurisprudenziale, né
nelle ricostruzioni interpretative, che tendono a polarizzarsi intorno al
problema dei danni cagionati dal prodotto difettoso.
La questione è stata individuata con
maggiore lucidità nel sistema giuridico statunitense, ove, anche grazie al
decisivo apporto fornito dell’analisi economica
del diritto[38], il problema dell’allocazione del residue of unavoidable risk connessi all’utilizzo di prodotti conformi
a standards legislativi
costituisce da tempo oggetto di una importante elaborazione interpretativa
condotta in sede legislativa e giurisprudenziale. Il sistema giuridico
statunitense, quindi, costituisce un modello da osservare con estremo interesse
in quanto fornisce una significativa conferma riguardo alla necessità di
adottare una lettura rigorosamente coordinata delle regole che governano la
responsabilità del produttore e di quelle che individuano standards uniformi di sicurezza dei prodotti e consente di
risolvere i delicati problemi relativi alla responsabilità del fabbricante per
i danni cagionati da prodotti conformi agli standards
di sicurezza federali secondo un disegno sistematico che in linea di
principio riflette le scelte operate in termini generali dal legislatore. Per
questa ragione sembra opportuno far precedere la rilettura critica degli
orientamenti giurisprudenziali formatisi nel nostro ordinamento
dall’illustrazione delle linee guida che emergono dalla casistica
giurisprudenziale statunitense in materia di responsabilità per i danni
cagionati dai prodotti conformi agli standards
di sicurezza, ma inevitabilmente dannosi.
Nel contesto statunitense la distinzione tra il problema
del danno cagionato da un prodotto difettoso e quello del danno derivante da
prodotto conforme, ossia non difettoso, ma inevitabilmente dannoso, emerge,
anzitutto, dalle regole sistematizzate nei Restatement
Second e Third, dedicati alla
materia dei Torts. L’elaborazione
giurisprudenziale, infatti, aveva condotto nella prima metà degli anni Sessanta
a ritenere che il prodotto potesse
essere considerato difettoso quando risultava unreasonably dangerous; il che portava ad escludere, in termini
speculari, una responsabilità del produttore nel caso in cui si verificassero
danni in ragione dell’utilizzo “normale” di un prodotto ragionevolmente sicuro[39].
Sotto questo profilo già le note illustrative della section 402 A del Restatement Second sottolineavano la rilevante distinzione — poi
ribadita dal Restatement Third — tra
prodotto difettoso e prodotto sicuro che, inevitabilmente,
conserva margini di dannosità “accettabili”. Prendendo come esempio le bevande
alcoliche, si specifica che è da considerare unreasonably dangerous una
bevanda alcolica che contiene sostanze
capaci di arrecare danni anche in caso di uso
appropriato[40];
al tempo stesso non si dubita che non possa considerarsi unreasonably dangerous, e quindi difettoso, il prodotto alcolico di
buona qualità solo perché il suo consumo può provocare gravi danni in caso di
uso inappropriato o eccessivo. Del resto, continua il commento illustrativo,
questo genere di considerazioni possono essere ripetute anche con riferimento a
molteplici tipologie di prodotti tradizionali di uso comune come, ad esempio,
il tabacco, il sale, lo zucchero, il burro, di per sé non unreasonably dangerous, ma estremamente dannosi se consumati in
modo inappropriato. Le osservazioni appena svolte conducono ad individuare con maggiore precisione la categoria dei c.d. unavoidable
unsafe products, ossia a quei prodotti che, anche nell’ambito del loro uso
normale, conservano significativi margini di dannosità che allo stato delle
conoscenze non è possibile eliminare quantomeno sostenendo costi di fabbricazione ragionevoli. A tale
riguardo vengono portati ad esempio i prodotti
farmaceutici e, in particolare il caso di alcuni vaccini
che, pur comportando il rischio di gravi effetti
collaterali, non possono
essere considerati difettosi, né unreasonably dangerous. Le stesse automobili, del resto, presentano caratteristiche costruttive che
consentono di raggiungere un livello di sicurezza solamente ragionevole, assai
lontano da quella assoluta. Proprio con riferimento a quest’ultima tipologia di
prodotti le illustrations del Restatement precisano che il livello di
sicurezza ragionevole richiesto dall’ordinamento deve essere individuato anche
tenendo conto dei costi produttivi. Pertanto, se da un lato può considerarsi
irragionevole un livello di sicurezza troppo basso, dall’altro può apparire non
appropriato anche il conseguimento di un livello di sicurezza molto elevato o
assoluto che comporti costi
produttivi eccessivi e limiti irragionevolmente la diffusione di un prodotto
circoscrivendo la possibilità di accesso al suo utilizzo ai soli consumatori
dotati di un ingente disponibilità economica[41].
La distinzione tra prodotto difettoso e prodotto conforme, ma comunque dannoso
emerge chiaramente nei settori — ormai sempre
più numerosi — in cui la
definizione dello stato dell’arte è stata trasfusa in specifiche disposizioni di legge o in “standards tecnici” predisposti da agenzie
governative (Agencies).
In termini generali, si può affermare che il mancato
rispetto degli standards imposti
dalla legge indichi la difettosità del prodotto[42].
Sotto questo profilo la section 4 del
Restatement Third, intitolata Noncompliance and Compliance with Product Safety
Statutes or Regulations, fornisce spunti di estremo
interesse ai fini dell’analisi dei rapporti tra regole “preventive” e norme risarcitorie. In essa infatti è chiaramente
enunciato il principio secondo cui in relazione alla responsabilità per difetto
di progettazione o inadeguata informazione il prodotto si deve considerare
difettoso qualora risulti non conforme (noncompliance)
alle previsioni sulla sicurezza disposte dalla legge o da regolamenti (Restatement Third, Torts: Products Liability
§ 3, (a))[43].
Se, da un lato, la mancata conformità si risolve
automaticamente in un giudizio di difettosità del prodotto, non può affermarsi
che, reciprocamente, il prodotto conforme sia di per sé sicuro. Il comment e, infatti, chiarisce che il
prodotto conforme alle leggi o ai regolamenti (regulations) emanati delle agenzie statali e federali in materia di
sicurezza può conservare significativi
margini di dannosità e, pertanto, essere considerato difettoso. Ciò consente di affermare che le norme
sulla sicurezza dei prodotti — siano esse statali o federali — devono essere
intese, in linea di massima, come minimum
standards[44].
In altri termini, esse stabiliscono solamente una soglia minima di sicurezza (floor) al di sotto della quale il
produttore deve considerarsi sicuramente responsabile; il che, tuttavia, non
esclude di operare valutazioni circa l’opportunità di adottare livelli di
sicurezza più elevati e, in ultima analisi, di affermare la responsabilità del
produttore che abbia omesso di adottarli[45].
Proprio con riferimento ai c.d. dangerous though
not defective products, ossia per quei prodotti
che, sebbene fabbricati secondo le regole dell’arte, conservano, inevitabilmente,
elevati margini di dannosità[46]
è emersa l’esigenza di condurre i giudizi relativi alla responsabilità del
produttore sulla base di un rigoroso raffronto tra le caratteristiche del bene
da cui è scaturito il danno e quelle prescritte negli standards
legislativi che governano la sicurezza di quella
particolare tipologia di prodotto.
L’analisi complessiva delle decisioni riferite a diverse
tipologie di prodotti evidenzia, in prima approssimazione, una certa disomogeneità per quanto concerne la valenza attribuita alla conformità del prodotto
rispetto agli standards
di sicurezza sanciti
dalle agenzie federali.
Nel contesto automobilistico, ad esempio, gli standards
federali sulla sicurezza
assumono, in linea di principio, la valenza di requisiti minimi (floor).
Il loro rispetto è necessario al fine di conseguire
l’omologazione da parte della National Highway
Traffic Safety Agency (N.H.T.S.A.), ma non costituisce, in linea di
massima, una causa di esonero di responsabilità per il produttore; occorre
considerare, tuttavia, che questo principio — valido in termini generali — ha
subito significative smentite anche in decisioni di rilevante importanza[47]. Anche con riferimento alla responsabilità del produttore di farmaci
possono essere ripetute considerazioni analoghe. In questo ambito, infatti,
sembra prevalere la regola secondo cui il rispetto degli standards sanciti dalla FDA costituisce
solamente una soglia minima di sicurezza il cui
conseguimento non esime in alcun modo il fabbricante dall’adozione di precauzioni addizionali e dalla responsabilità per i pregiudizi provocati dal prodotto
conforme alla disciplina pubblicistica della sicurezza, ma comunque caratterizzato da una persistente
attitudine a provocare danni[48].
Occorre tenere conto,
peraltro, che trova significative conferme anche l’assunto secondo
cui il rispetto degli standards sanciti dalle agenzie federali può costituire un limite massimo di sicurezza, conseguito il quale non è possibile configurare una responsabilità
per i pregiudizi cagionati dal prodotto “inevitabilmente dannoso”. Così, dando applicazione a questa regola,
è stata esclusa la responsabilità dei
produttori di sigarette[49],
di telefoni cellulari[50]
e di
alcolici[51] che si erano limitati ad adottare le misure di prevenzione dei danni
richieste dagli standards legislativi e non si erano spinti
sino a ricorre a tutte quelle che sarebbero
state necessarie per limitare ulteriormente la dannosità connessa alla
diffusione di quei
prodotti.
La rassegna della casistica giurisprudenziale fin qui
illustrata dimostra che — al di là degli apparenti profili di contraddittorietà
— le differenti soluzioni indicate scaturiscono da una lettura rigorosamente
coordinata delle discipline federali sulla sicurezza dei prodotti e dei
regolamenti emanati dalle Agencies. Esse,
quindi, riflettono — in linea di massima — le differenziate scelte di politica
del diritto attuate
dal legislatore e circostanziate dalle Agencies con
riferimento alle molteplici categorie di prodotti
dai quali possono scaturire rischi per gli
utilizzatori. In altri termini, quindi, emerge
una propensione del giudice ad attuare una lettura della tort law rigorosamente rispettosa delle
scelte operate dal legislatore e dalle Agencies federali, quindi compendiate nella cosiddetta safety law federale.
Il “percorso predefinito” che il giudice è chiamato a
seguire quando si tratta di decidere riguardo alla risarcibilità dei danni
cagionati dall’utilizzo di un prodotto si articola, anzitutto,
nell’individuazione delle regole federali che definiscono gli standards tecnici di sicurezza del
prodotto considerato, quindi nell’interpretazione delle norme federali che
attribuiscono al rispetto dello standard tecnico
la valenza di “limite massimo” di sicurezza conseguito il quale non è
configurabile un’ulteriore responsabilità del produttore, oppure quella di
“limite minimo” il cui conseguimento è necessario per escludere la difettosità
del prodotto, ma non sufficiente per giustificare l’esenzione del fabbricante
da obblighi risarcitori. Nel quadro appena delineato la responsabilità del
produttore può configurarsi anzitutto nel caso in cui il prodotto dannoso
presenti caratteristiche che si pongono al di sotto dei livelli di sicurezza
individuati dagli standards federali.
Essa può essere affermata anche quando il prodotto dannoso risulti conforme
agli standards federali; ciò accade
in tutti i contesti nei quali lo standard
federale assume la valenza di un limite minimo di sicurezza. Peraltro la
responsabilità del produttore per i danni cagionati dal prodotto conforme, ma
inevitabilmente dannoso, deve essere esclusa nei contesti in cui — in ragione
di una preemption clause esplicita o
implicita — lo standard federale
assume la funzione di indicare il livello massimo di sicurezza esigibile,
conseguito il quale non è possibile configurare la risarcibilità dei danni
inevitabilmente connessi alla diffusione di un determinato prodotto.
Le decisioni giurisprudenziali che sanciscono
l’irresponsabilità del produttore per i danni cagionati da prodotti conformi,
ma “inevitabilmente dannosi” sottolineano l’imprescindibile necessità di
limitare l’espansione della responsabilità civile in funzione delle valutazioni
operate a livello federale e destinate a riflettere i loro effetti in uno
spazio economico e politico “comune”.
Questa esigenza, indubbiamente presente anche nel
contesto dell’Unione Europea, risulta particolarmente avvertita negli Stati
Uniti anche in considerazione dei caratteri peculiari che caratterizzano il
sistema della responsabilità civile in quel ordinamento. Sotto tale profilo
occorre considerare la presenza di alcuni strumenti che, operando
sinergicamente, possono determinare conseguenze economiche estremamente
rilevanti a seguito dell’accertamento di una responsabilità del fabbricante per
i danni cagionati dai prodotti. Anzitutto in quel contesto la class action può assumere sia una
dimensione circoscritta alla singola giurisdizione nazionale, sia la portata
più ampia della Multidistrict Litigation (Rule 23 della Federal Rules of Civil Procedure[52]). In questo secondo
caso è possibile aggregare in un’unica iniziativa giudiziale le
posizioni di danneggiati appartenenti a giurisdizioni statali diverse. Anche i
c.d. punitive damages possono
contribuire, sotto un diverso profilo, a rendere particolarmente rilevanti le
conseguenze economiche connesse alla dannosità dei prodotti[53].
Nonostante i significativi profili di differenziazione
che caratterizzano il sistema statunitense rispetto a quello dell’Unione
Europea sembra sicuramente da osservare con interesse il disegno di politica
del diritto che, ispirandosi all’obiettivo dell’armonizzazione delle regole in
un contesto giuridico comune, attribuisce fondamentale importanza all’esigenza
di operare una lettura delle norme in materia di responsabilità civile
rigorosamente coordinata con quelle che governano la sicurezza dei prodotti.
Esso, infatti, risulta, in ultima analisi,
funzionale a far sì che la responsabilità civile del produttore si espanda in armonia con le valutazioni
di carattere generale operate dal
legislatore con riferimento all’individuazione di livelli di “sicurezza ragionevole” delle attività dei prodotti. Inoltre,
l’idea di assumere lo standard federale come criterio fondamentale sulla base del quale
valutare la sicurezza del prodotto,
costituisce il presupposto affinché si realizzi un’effettiva armonizzazione nella
materia della responsabilità del produttore e, più in generale, una
razionalizzazione dei giudizi concernenti la risarcibilità dei danni provocati
dai prodotti.
Muovendo da queste considerazioni, sembra opportuno
sottoporre ad una revisione critica gli orientamenti giurisprudenziali che si
sono formati nel nostro ordinamento e che non sembrano riconducibili ad un
disegno organico simile a quello appena descritto.
Il problema della responsabilità del
fabbricante per i danni cagionati da un prodotto conforme agli standards legislativi in materia di
sicurezza non viene delineato e colto con chiarezza nell’analisi della
casistica giurisprudenziale italiana. Essa fa emergere, anzitutto, una
limitatissima propensione ad operare una lettura sistematica e coordinata delle
norme che regolano la responsabilità del produttore e di quelle che definiscono la sicurezza dei prodotti sulla
base degli standards legislativi armonizzati, quindi, in definitiva, a valorizzare quell’”anello
di congiunzione” tra le due discipline che anche il legislatore europeo
considera imprescindibile[54].
Il che rende impossibile individuare regole generali sulla base delle quali
poter stabilire con sicurezza, per ogni tipologia di prodotto, se sussista una
responsabilità del fabbricante anche qualora i danni cagionati all’utilizzatore
scaturiscano da un prodotto del tutto conforme agli standards legislativi.
I profili di criticità ed incertezza nella
soluzione del problema della responsabilità del fabbricante per i danni
cagionati da prodotti conformi agli standards
legislativi emerge in modo differenziato nei diversi precedenti
giurisprudenziali.
In prima approssimazione è possibile
individuare tre categorie di decisioni. Alcune affrontano il problema della
responsabilità del produttore di beni la cui sicurezza è definita da standards legislativi omettendo, inopinatamente, ogni riferimento a
questi ultimi e ricavando il carattere difettoso del prodotto sulla base del
criterio generico che si riferisce alla sicurezza che il consumatore può
“legittimamente attendere” (art. 6, dir. 85/374/ CEE; art. 5, d.p.r. 224/1988; 117 c. cons.) nell’uso normale[55]. Un secondo
gruppo di pronunce risolve il problema della risarcibilità dei danni cagionati
da prodotti la cui sicurezza
è regolata da standards
legislativi armonizzati
seguendo un metodo interpretativo che denota un distacco ancora più netto
rispetto al sistema di regole in materia di responsabilità del produttore e sicurezza dei prodotti predisposto dal
legislatore dell’Unione Europea e trasposto dal legislatore nazionale nel
nostro ordinamento. Così, dando vita a quella che è stata definita una
“casistica parallela”[56],
un considerevole numero di decisioni di legittimità e di merito hanno risolto
il problema della risarcibilità dei
danni cagionati da alcune tipologie di prodotti applicando la disciplina
dell’art. 2050 c.c. in luogo di quella di derivazione comunitaria che regola la responsabilità del produttore (artt. 114 c. cons.
ss.)[57].
Solamente in un limitatissimo numero di precedenti è stata colta la necessità
di risolvere il problema della responsabilità del produttore di beni la cui
sicurezza è regolata da dettagliati standards
legislativi adottando una lettura interpretativa in funzione della quale la
difettosità del prodotto viene determinata sulla base di rigoroso riferimento
ai suddetti standards[58].
Le indicazioni che possono essere ricavate da questi precedenti testimoniano
una non piena consapevolezza e considerazione del problema della responsabilità
per i danni cagionati da prodotti conformi agli standards legislativi. Infatti, l’esiguo numero
di decisioni, la laconicità
delle motivazioni e la sussistenza di evidenti profili di disomogeneità tra le soluzioni adottate con riferimento alle
diverse tipologie di prodotti non permettono di estrapolare regole generali
idonee ad orientare con sicurezza l’interprete ogniqualvolta si ponga l’esigenza di stabilire se il danno
provocato da un prodotto conforme agli standards legislativi possa essere risarcito.
La consapevolezza riguardo alla netta
distinzione che corre tra il problema della responsabilità del fabbricante per
i danni cagionati da prodotti difettosi e quello della responsabilità per i
danni provocati da prodotti conformi agli standards
legislativi sembra emergere, invero, solo in alcune decisioni recenti le cui motivazioni fanno trasparire una
crescente attenzione riguardo alla peculiarità del problema dei danni cagionati
da prodotti conformi agli standards legislativi. Così, la S.C. è giunta
ad escludere la responsabilità
del fabbricante per un danno causalmente riconducibile all’utilizzo di uno
strumento chirurgico affermando che la circostanza che il danno “sia
temporalmente conseguito l’utilizzazione del prodotto” non può necessariamente
condurre a conseguire la prova della sua difettosità. In altri termini, quindi,
“per riconoscere la difettosità di un prodotto non è sufficiente accertare il
danno da questo provocato e la sussistenza di un nesso causale” tra l’utilizzo
del prodotto e il danno; ciò “non prova indirettamente,
di per sé la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma
solo una più indefinita pericolosità del prodotto, di per sé insufficiente per
integrare la responsabilità del produttore, in mancanza del concreto
accertamento della violazione degli standards
minimi di sicurezza richiesti dalla utenza o dalle leggi in materia”[59].
Il livello di sicurezza prescritto dagli standards
legislativi, quindi, costituisce una soglia al di sotto della quale il
prodotto può considerarsi difettoso, ma non corrisponde ad un livello di
sicurezza assoluto tale da garantire la “più rigorosa innocuità” del prodotto
stesso. In definitiva, per poter configurare una responsabilità del produttore
per i danni cagionati dai prodotti che egli immette sul mercato non è
sufficiente dimostrare la sussistenza di un nesso causale tra l’utilizzo del prodotto ed il verificarsi del danno; occorre,
invece, dimostrare la sussistenza
di un “prerequisito” della responsabilità del fabbricante e, segnatamente, che
il prodotto dal quale il danno è scaturito possa considerarsi difettoso, ossia
non conforme agli standards legislativi
che ne definiscono le caratteristiche di sicurezza. Del resto, l’assunto
secondo cui “non può considerarsi difettoso ogni prodotto che di per sé
presenti una qualsiasi attitudine” a cagionare un danno ricorre
anche in altri
precedenti di legittimità in materia di danni derivanti dall’utilizzo di cosmetici
conformi ai requisiti stabiliti dalla l. n. 713 del 1986[60].
La distinzione tra prodotto difettoso,
ossia non conforme ai requisiti di
sicurezza legislativamente prescritti e prodotto che, sebbene conforme a questi
ultimi, risulti “pericoloso con riferimento all’uso anormale che se ne fa” emerge in modo ancor più nitido in
un recente obiter dictum contenuto in
una pronuncia di merito in materia di danni da fumo. Proprio valorizzando
questa distinzione è stata esclusa la possibilità di dare applicazione alla
disciplina in materia di responsabilità del produttore contenuta nel codice del
consumo ed affermata la riconducibilità della fattispecie al più rigoroso regime
di responsabilità previsto
dell’art. 2050 c.c.[61]. Questa
soluzione, del resto, può essere considerata una applicazione del
principio che la S.C.[62] aveva
già espresso anni addietro, stabilendo che l’attività di produzione
di sigarette deve essere considerata attività pericolosa ed assoggettata alla disciplina dell’art. 2050 c.c.[63].
La responsabilità del fabbricante per i
danni cagionati da un prodotto conforme agli standards legislativi è stata affermata anche in una decisione di
merito nella quale si trattava di decidere riguardo ai danni subiti dal
conducente di un motoveicolo pienamente conforme agli standards di sicurezza europei (ECE) ed americani (FMVSS)[64]; standards che, tuttavia, ad opinione del
giudicante costituivano solamente una condizione necessaria al fine di
conseguire l’omologazione, ma non sufficiente ad escludere una responsabilità
del produttore. Tale responsabilità, peraltro, veniva riaffermata anche sotto
il profilo del difetto di informazione, ravvisato nella assenza nel libretto di
istruzioni un’avvertenza che indicasse all’utilizzatore l’inidoneità
strutturale del veicolo di garantire un’adeguata protezione degli occupanti in
caso di incidente a velocità superiori al limite dei 50 km/h.
L’eterogeneità delle soluzioni che emerge
dall’analisi delle poche decisioni nelle quali si è posto ed è stato
esplicitamente individuato il problema della responsabilità del fabbricante per
i danni cagionati da prodotto conforme agli standards
legislativi impedisce di individuare un criterio sicuro sulla base del
quale prevedere gli esiti di controversie analoghe. Le decisioni in materia di
danni derivanti da cosmetici o dall’utilizzo di apparecchiature mediche
porterebbe ad escludere la responsabilità del fabbricante per i danni provocati
da un prodotto non difettoso, ossia conforme
agli standards legislativi di sicurezza. Peraltro
le decisioni nelle quali
è stata affermata la responsabilità del produttore di sigarette o di un
motoveicolo conforme agli standards di
sicurezza europei forniscono indicazioni di segno opposto, che, invero,
sembrano presentare profili di evidente contrarietà rispetto al disegno
dell’armonizzazione della responsabilità del produttore nei diversi paesi che
compongono l’Unione Europea[65].
Nel quadro delineato si inserisce un
ulteriore elemento di complessità laddove si consideri che l’esigenza di
tutelare coloro che subiscano danni dall’utilizzo di un prodotto conforme a standards legislativi ha indotto alcuni
interpreti a valorizzare il principio di precauzione[66]
come criterio di lettura delle norme in materia di responsabilità civile[67].
Più precisamente, si è cercato di attribuire rilevanza al principio di precauzione per giustificare l’applicazione dell’art. 2050 c.c. riguardo al risarcimento dei danni cagionati dall’impiego di farmaci[68] o
provocati dal consumo di determinati alimenti[69].
In realtà la soluzione interpretativa
appena illustrata desta perplessità in quanto giungere a riconoscere al giudice
il potere di applicare il regime di responsabilità previsto
dall’art. 2050 c.c. ed a “cancellare”[70] l’esimente del rischio da sviluppo[71]
solo muovendo dall’enunciazione generica del principio di precauzione
significherebbe attribuirgli una competenza che dovrebbe essere riservata al
legislatore ed alla P.A. Del resto, l’obiezione ad un utilizzo “diretto” del
principio di precauzione da parte del giudice chiamato a decidere della
responsabilità civile del produttore risulta avvalorata laddove si consideri
che la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che detto principio legittima
l’adozione di misure restrittive da parte del
legislatore e della
P.A. in assenza
di dati scientifici certi ed è, quindi, eminentemente rivolto alle “autorità
amministrative”[72]. Esse sono chiamate a
“trasformare” la generica enunciazione del principio di precauzione in misure
concrete e circostanziate[73]
dopo aver operato, anche con il supporto di organi scientifici accreditati, una
valutazione dei rischi[74] ed attuato un contemperamento tra le esigenze
di tutela della salute indicate dalla scienza ed altri interessi che vengono di
volta in volta in considerazione. Le “espressioni circostanziate” del principio
di precauzione e le norme in materia di sicurezza dei prodotti possono essere
oggetto di un sindacato da parte dei “giudici dei provvedimenti legislativi e
regolamentari”[75], mentre nella prospettiva
del giudice civile, chiamato a decidere riguardo al risarcimento dei danni,
dovrebbero rappresentare un dato di cui occorre necessariamente prendere atto
ed un limite all’espansione della responsabilità civile che non può essere
messo in discussione dando applicazione al principio di precauzione[76].
Il filo conduttore dell’indagine sviluppata
con riferimento al contesto nazionale, alla prospettiva dell’Unione Europea e a
quella statunitense può essere riassunto nell’esigenza di individuare criteri
affidabili che consentano di stabilire entro quali limiti sia possibile
configurare una responsabilità del fabbricante per i danni subiti dall’utilizzo
di prodotti che risultino del tutto conformi alle prescrizioni contenute
negli standards legislativi. Proprio
l’esigenza di creare le condizioni funzionali a realizzare una concorrenza equilibrata tra le imprese che operano e
diffondono i loro prodotti in un mercato in cui sono compresi più ordinamenti
statali presuppone necessariamente di considerare in termini uniformi il
problema dei limiti alla responsabilità del produttore.
Come si è avuto modo di osservare, sia
nell’Unione Europea, sia negli Stati Uniti, sono stati predisposti articolati
sistemi di regole armonizzate funzionali a garantire che i prodotti siano “ragionevolmente
sicuri”. Così negli Stati Uniti la frammentazione nazionale della product liability
law viene compensata e
superata mediante la predisposizione di regole federali uniformi che definiscono la sicurezza dei prodotti (product safety
law) e che rivestono rilievo preminente rispetto
alle discipline nazionali (preemption
doctrine); nell’Unione Europea l’obiettivo dell’armonizzazione della
responsabilità del produttore viene attuato mediante l’operare sinergico della
disciplina uniforme delle norme che governano la responsabilità civile (dir. 85/374/CEE) e di quelle che regolano
la sicurezza dei prodotti (direttiva 2001/95/CE ed altre
direttive “verticali” specificamente dedicate a determinate categorie di prodotti). I complessi
apparati di norme che definiscono il livello di “sicurezza ragionevole” che i
diversi prodotti debbono conseguire per poter essere commercializzati
costituiscono il frutto di delicate soluzioni di compromesso attraverso le
quali il legislatore individua un punto di equilibrio tra molteplici esigenze
potenzialmente antagonistiche. Per poter garantire un’equilibrata concorrenza
delle imprese ed una tutela uniforme della salute delle persone in uno spazio
economico comune assume un’importanza fondamentale che le regole appena
menzionate costituiscano un punto di riferimento condiviso sia quando si tratta
di stabilire le condizioni di accesso al mercato, sia quando si pone il problema di sancire
la responsabilità del produttore per i danni subiti dagli utilizzatori dei
prodotti stessi. Come osservato, quest’esigenza trova riscontro
nell’armonizzazione del diritto dell’Unione Europea e nell’uniformità che caratterizza la legislazione federale
statunitense in materia di sicurezza dei prodotti. In definitiva, quindi, i
complessi sistemi di norme che definiscono gli
standards di sicurezza dei
prodotti possono essere osservati come strumenti funzionali a garantire
l’ordinato sviluppo di un progetto organico nel contesto di un sistema
unitariamente concepito. In questo modo la responsabilità civile del produttore
si espanderebbe in armonia con le scelte operate
in materia di sicurezza dei prodotti; inoltre,
in ragione dell’uniformità degli standards, si conseguirebbe
l’obiettivo di addivenire ad una uniformità in materia di responsabilità civile
in un determinato spazio politico ed economico[77].
Concentrando l’attenzione sui contesti nei
quali la “sicurezza ragionevole” dei prodotti viene definita da norme tecniche
funzionali ad attuare esigenze di armonizzazione, si riscontra, sia nell’Unione
Europea, sia negli Stati Uniti la
necessità che il giudice chiamato a decidere riguardo ai profili risarcitori
operi una lettura rigorosamente coordinata delle norme in materia di
responsabilità civile e di quelle che governano la sicurezza dei prodotti.
Questo approccio metodologico viene
costantemente seguito nelle decisioni statunitensi. In quel contesto il giudice
chiamato a decidere riguardo al risarcimento dei danni cagionati dai prodotti
opera secondo un “percorso predefinito”. Un percorso che, invero, dovrebbe
essere adottato anche dal giudice
italiano in tutti
i casi in cui si tratti di decidere riguardo
alla responsabilità del produttore per danni cagionati da un prodotto la
cui sicurezza è regolata da norme tecniche armonizzate nelle quali sono
contenuti standards uniformi per
tutti i paesi dell’Unione Europea. Egli, quindi, dovrebbe anzitutto individuare
le regole in ragione delle quali stabilire se
il prodotto da cui è scaturito il danno possa considerarsi
“ragionevolmente sicuro”: qualora il
prodotto risulti non rispettoso delle regole che ne definiscono la sicurezza
sarà sancita la responsabilità del produttore; nel caso in cui non siano
riscontrabili violazioni delle norme che individuano le caratteristiche
costruttive del prodotto e degli standards
di sicurezza che esso deve rispettare, invece, occorre operare una
distinzione basata sulle indicazioni
fornite dal legislatore. In particolare la responsabilità del produttore per i
danni cagionati da un prodotto conforme agli standards potrebbe configurarsi
qualora le discipline in materia di sicurezza e le norme tecniche armonizzate
possano essere considerate funzionali a garantire solamente un livello minimo
di sicurezza[78]; in quest’ultimo caso il
loro rispetto non consentirebbe di
escludere in termini generali la responsabilità del produttore per i danni
cagionati da un prodotto conforme alla disciplina sulla sicurezza, ma comunque
dannoso. Diversamente, qualora gli standards
prescritti dal legislatore assumano la valenza di limiti massimi di
sicurezza, si dovrà concludere che non sussiste una responsabilità in capo al fabbricante del prodotto conforme, ma
inevitabilmente dannoso[79].
L’adozione
dell’approccio interpretativo indicato risulta indubbiamente funzionale
all’attuazione del disegno dell’armonizzazione della responsabilità del
fabbricante nei paesi dell’Unione Europea e di quegli obiettivi di efficiente
funzionamento del mercato e uniforme tutela delle persone che sono alla base
del sistema di regole che governano sicurezza dei prodotti della responsabilità
per i danni da essi cagionati. È evidente, pertanto, che una lettura
rigorosamente coordinata delle norme in materia di responsabilità del
fabbricante e di quelle concernenti la sicurezza dei prodotti appare, a maggior
ragione, imprescindibile nella prospettiva della prossima conclusione del Transatlantic Trade and Investment
Partnership (T.T.I.P.).
. Recebido em: 1 set.
2016. Avaliado em: 22 nov. 2016.
[1] La
Commissione nella sua comunicazione «Armonizzazione tecnica e normalizzazione: un nuovo approccio» ha proposto una
revisione dei metodi e delle procedure secondo un nuovo approccio in materia di
armonizzazione tecnica e di utilizzazione della normalizzazione. In definitiva
l’attuazione dell’armonizzazione tecnica – perseguita in un primo momento
mediante direttive specifiche molto tecniche e dettagliate, prodotto per
prodotto – avrebbe dovuto essere realizzata attraverso disposizioni regolamentari generali applicabili a settori o famiglie di prodotti nonché a tipi di rischio.
Sulla base di questa proposta
della Commissione e delle sue conclusioni in materia
di normalizzazione del 16 luglio 1984 il Consiglio adottò la Risoluzione 7
maggio 1985, relativa ad una nuova strategia in materia di armonizzazione
tecnica e normalizzazione (Risoluzione del Consiglio 85/C 136/01, G.U. C.e., C
136, 4 giugno 1985) con la quale ha preso avvio il c.d. nuovo approccio. Sul
punto si veda Carnevali, Prevenzione e
risarcimento nelle direttive comunitarie sulla sicurezza dei prodotti, in Resp. civ. e prev., 2005, p.
5.
[2] Ponzanelli,
Introduzione, R. Pardolesi e
Ponzanelli (a cura di), “I 25 anni di products liability”, in Danno e resp., 2012, p. 5.
[3] Per
una diffusa illustrazione si rinvia al sito ufficiale della Comm. http://ec.europa.eu/ trade/policy/in-focus/ttip/.
[4] V.
The Blu Guide on the Implementation of EU Product Rules, pubblicata dalla Comm.
nel 2014, p. 12.
[5] Come
noto, il problema della responsabilità del produttore nel nostro ordinamento è
stato profondamente indagato già a partire dagli anni Settanta. Con riferimento
al periodo precedente l’entra in vigore del d.p.r. 224/1988 si segnalano i
contributi di Trimarchi, Rischio e
responsabilità oggettiva, Napoli, 1961; Ghidini, La responsabilità del produttore di beni di consumo, Milano, 1970,
p. 82; Carnevali, La responsabilità del
produttore, Milano, 1974; Alpa, Responsabilità
dell’impresa e tutela del consumatore, Milano, 1975; Id., Tutela del consumatore e controlli
sull’impresa, Bologna, 1977; Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979. Tra i
numerosi contributi successivi all’entrata in vigore del d.p.r. 224/1988 si
vedano Salvi, Responsabilità
extracontrattuale, XXIX, Milano, 1988, p. 1229; Aa.Vv., Il danno da prodotti in Italia, Austria,
Repubblica Federale di Germania, Svizzera a cura di Patti, Padova, 1990;
Gorassini, Contributo per un sistema
della responsabilità del produttore, Milano, 1990; Alpa, Carnevali, Di
Giovanni, Ghidini, Ruffolo, Verardi, La
responsabilità per danno da prodotti difettosi, Milano, 1990; Ponzanelli, Comm. alla responsabilità da prodotti
difettosi a cura di R. Pardolesi e Ponzanelli, in Nuove leggi civ. e comm., 1989, 3, p. 509; Id., Responsabilità del produttore, in Riv. dir. civ., 1995, II, p. 215 ss.;
Id., La responsabilità civile. Profili di diritto comparato, Bologna,
1992, p. 112; Alpa, Bin, Cendon, La
responsabilità del produttore, in Tratt.
dir. comm. e dir. pubbl. econ. diretto da Galgano, XIII, Padova, 1989; Castronovo, voce Danno da prodotti (dir. it. e straniero),
in Enc. giur., X, 1995, 11; Id., voce Responsabilità oggettiva
(dir. it. e straniero) in Enc. giur., XXVII, 1991, 11; Franzoni, Dieci
anni di responsabilità del produttore, in Danno e resp., 1998, p. 823; Monateri, Illecito e responsabilità civile, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, Torino, 2002, X, 2, p. 257;
Cabella Pisu, Cittadini e consumatori nel diritto dell’Unione Europea, in Contratto e impr. Europa, 2007, II, p. 680; Ead., Ombre
e luci nella responsabilità del produttore, in Contratto e impr. Europa, 2008, p. 617 ss; Carnevali, “Produttore” e responsabilità per danno da prodotto difettoso
nel codice del consumo, in
Resp. civ. e prev., 2009, pp.
1938-1945; Cordiano, sub art. 114, in
Codice del consumo annotato con la
dottrina e la giurisprudenza a cura di Capobianco, Perlingieri, Napoli, 2009, p. 645; Cafrì, sub art. 114, in Codice del consumo e norme collegate a cura di Cuffaro, III ed.,
Milano, 2012, p. 603 ss; Franzoni, L’illecito,
in Tratt. responsabilità civ.,
Milano, 2010, II ed., I, p. 661 ss.; Thiene, sub art.
114 c.cons., in Comm. breve al Diritto dei consumatori
diretto da De Cristofaro e Zaccaria, Padova, 2013, p. 732; Albanese, La sicurezza generale dei prodotti e la
responsabilità del produttore nel diritto italiano ed europeo, in Europa e dir. priv., 2005, pp. 977-1012; R. Pardolesi e Ponzanelli (a
cura di), “I 25 anni di products
liability”, in Danno e resp., 2012.
[6] Sul
punto v. R. Pardolesi e Caruso, Per una
storia della Direttiva 1985/374/CEE, in Danno
e resp., 2012; si veda anche The Blu
Guide on the Implementation of EU Product Rules, pubblicata dalla Comm. nel
2014, p. 6. Per una esaustiva illustrazione riferita al contesto statunitense
v. Owen, Montgomery and Davis, Product
Liability and Safety, IV ed., New York, 2010, p. 2.
[7] Con
particolare riferimento alla responsabilità del produttore Tassone, Responsabilità da prodotto e nesso di causa,
“I 25 anni di products liability”, in
Danno e resp., 2012, p. 21. Più in
generale, sul problema della causalità, Franzoni, L’illecito, I, II ed., Milano, 2010, p. 61; Pucella, La causalità incerta, Torino, 2007;
Nocco, Il “sincretismo causale”
e la politica del diritto:
spunti dalla responsabilità sanitaria, Torino,
2010; Capecchi, Il nesso di causalità.
Dalla condicio sine qua non alla
responsabilità proporzionale, Padova, 2012.
[8] Nel
primo Considerando della dir. 85/374/CEE si osserva che “il riavvicinamento delle legislazioni
nazionali in materia di responsabilità del produttore per i danni causati dal
carattere difettoso dei prodotti è necessario perché le disparità esistenti fra
tali legislazioni possono falsare il gioco della concorrenza e pregiudicare la
libera circolazione delle merci all’interno del Mercato comune determinando
disparità nel grado di protezione del consumatore contro i danni causati alla
salute e ai suoi beni da un prodotto difettoso”. Sul
punto v. Alpa, L’attuazione della direttiva nei paesi della CEE, in La responsabilità del produttore a
cura di Alpa,
Bin, Cendon, XIII,
in Tratt. dir. comm.
e dir. pubbl. econ. diretto da Galgano, cit.,
p. 17 ss.
[9] Nella Illustration 2 del Restatement Third, Torts: Products
Liability section 2, p. 20, si mette in luce che le molteplici
definizioni del c.d. stato dell’arte (la tecnologia più avanzata, il livello
più evoluto di conoscenze scientifiche, lo standard
di qualità media adottato dalla produzione industriale) portano a
concludere che si tratti di un concetto vago, che si presta ad interpretazioni
discrezionali e caratterizzate da un elevato grado di approssimazione.
[10] Nel
primo considerando della direttiva si osserva che “il riavvicinamento delle
legislazioni nazionali in materia di responsabilità del produttore per i danni
causati dal carattere difettoso dei prodotti è necessario perché le disparità
esistenti fra tali legislazioni possono falsare il gioco della concorrenza e pregiudicare la libera circolazione delle merci
all’interno del Mercato comune determinando disparità nel grado di protezione
del consumatore contro i danni causati alla salute e ai suoi beni da un
prodotto difettoso”. Sul punto v. Alpa, L’attuazione della direttiva nei paesi della
CEE, cit., p. 17 ss.
[11] Trib. Roma 12 maggio 2004, in Resp. civ. e prev., 2005, p. 217, con nota di Della Bella, La responsabilità del produttore di tute sportive.
[12] Tra
le decisioni che hanno sancito la responsabilità del produttore di indumenti e,
opportunamente, non hanno fatto riferimento a particolari discipline tecniche
in materia di sicurezza si vedano Trib. Roma 12 maggio 2004, cit., relativa ai
danni provocati da una tuta realizzata con materiali infiammabili; Trib. La Spezia
27 ottobre 2005,
in Foro it., 2005, I,
c. 3500; in Corr. merito, 2006,
2, p. 177, con nota di Cabella
Pisu, Il costo di una caduta
… dagli stivali, in materia di danni provocati da una calzatura che
presentava un difetto di fabbricazione tale da cagionare la caduta della
persona che la indossava.
[13] Sul
punto v. Trib. Milano 13 aprile 1995, in Danno e resp., 1996, p. 381, con nota
di Ponzanelli, Crollo di un letto a castello: responsabilità del
produttore-progettista e del montatore.
[14] Come
si osserverà diffusamente, le caratteristiche dei prodotti e le modalità di
svolgimento delle attività sono sempre più di frequente regolate da
disposizioni che incorporano valutazioni tecniche assai complesse, oppure
rinviano a vere e proprie “regole tecniche” predisposte da enti accreditati e
costantemente aggiornate in armonia con il progresso scientifico e tecnologico. Solo per fare alcuni esempi,
basti pensare all’elenco delle “sostanze ammesse” per la produzione dei cosmetici, ai
requisiti di omologazione richiesti per la immissione in commercio degli
autoveicoli, alle regole che fissano soglie di esposizione alle onde
elettromagnetiche emesse dai telefoni cellulari, alle norme tecniche imposte per la sicurezza
di prodotti come le biciclette, le scale, gli accendini, le bombole a gas (Carnevali, Prevenzione e risarcimento nelle direttive comunitarie sulla sicurezza
dei prodotti, cit., p. 11). Anche le norme pubblicistiche sulla produzione
e la manipolazione degli alimenti risultano talvolta estremamente dettagliate e
indicano con precisione a quali standards
qualitativi sia necessario adeguarsi. Solo per fare alcuni esempi, per quanto concerne
gli integratori alimentari il principio della “lista positiva”
impone l’obbligo di utilizzare
per la fabbricazione di integratori alimentari solo vitamine e minerali
elencati negli allegati al d. lgs. n. 169/2004); con riferimento al latte il
d.p.r. 54/1997 enuncia dettagliati requisiti che disciplinano le procedure di
pastorizzazione e fissano le qualità organolettiche del prodotto (sul punto
cfr. Al Mureden, I danni dal consumo di
alimenti tra legislazione di settore, principio di precauzione responsabilità civile, in questa rivista, 2011,
p. 1495 ss.). A queste regole occorre aggiungere, da ultimo, quelle
relative all’etichettatura dei prodotti alimentari contenute nel reg.
Reg. (UE) 1169/2011, applicabile a decorrere dal 13 dicembre 2014.
[15] Le
regole sulla sicurezza generale dei prodotti costituiscono una normativa
“orizzontale” che si affianca a quelle più specifiche (c.d.
norme verticali). I rapporti tra legislazione
orizzontale e legislazione verticale sono regolati dai criteri della
sussidiarietà e complementarietà. Pertanto la disciplina generale sulla sicurezza dei prodotti non si applica
ove sia presente
una disciplina specifica
(sul punto v. Carnevali, Prevenzione e risarcimento nelle direttive
comunitarie sulla sicurezza dei prodotti, cit.,
p. 11; Cavallo, sub art. 102, in Codice del
consumo e norme collegate
a cura di Cuffaro, III ed., Milano,
2012, p. 575; Cordiano, Sicurezza dei prodotti e tutela preventiva dei consumatori, Padova,
2005, p. 43 ss.).
[16] La Direttiva
è stata attuata in Italia dal d. lgs. n. 219/2006.
[17] Per
un’analitica illustrazione delle discipline di settore previste in tema di
presidi medico chirurgici (come ad esempio le protesi mammarie, le lenti a
contatto, ecc.) Querci, Protesi mediche tra regolamentazione di sicurezza e responsabilità da prodotto: l’onere della prova tutela il consumatore,
in Danno e resp., 2008, p. 290; Di
Loreto, I dispositivi medici tra regolamentazione di sicurezza e responsabilità, in Danno e resp., 2007, p. 193.
[18] La
Direttiva è stata attuata in Italia dalla l. n. 713/1986. L’intera disciplina
dei cosmetici è stata completamente rinnovata dal Reg. (Ce) n. 1223/2009, in
vigore dal 11 luglio 2013.
[19] La direttiva ha sostituito la precedente dir. 73/23/CEE; l. n. 791/1977.
[20] In
precedenza la materia era regolata dalla dir. 88/378/CEE attuata mediante d.
lgs. n. 313/1991.
[21] In
questa direttiva l’uniformazione delle normative tecniche nazionali fu attuata mediante
una sinergia tra la legge – che disciplinava direttamente soltanto gli obiettivi di sicurezza da raggiungere–e le cosiddette specifiche
tecniche mediante le quali gli obiettivi indicati dal legislatore venivano
messi a fuoco attraverso il rinvio ad una normazione tecnica di natura
consensuale, la cui elaborazione era affidata al CENELEC, un’associazione di
natura privatistica costituita nel 1973, che emanava standards validi a livello europeo. La decisione di aderire alle
specifiche tecniche del CENELEC e fabbricare prodotti ad esse conformi
assicurava una presunzione di conformità agli obiettivi di sicurezza sanciti
dalla dir. 73/23/CEE e consentiva ai costruttori di risultare esonerati
dall’onere della prova circa la sicurezza del prodotto Cagli, Organizzazione procedure dell’attività
amministrativa tecnica nel settore dei prodotti industriali, in Aa.Vv., La normativa tecnica industriale:
amministrazione e privati nella normativa tecnica e nella certificazione dei prodotti industriali a cura di Andreini, Bologna,
1995, p. 171, osserva che, in
assenza di norme
armonizzate elaborate dal CENELEC, era consentito adottare
modalità produttive che corrispondevano alla buona tecnica
secondo i criteri elaborati in campo internazionale. Con la direttiva “bassa tensione”, invece,
si è dato vita per la
prima volta ad un approccio mediante il quale
la Comunità Europea
ha imposto ai produttori
solamente l’obiettivo di immettere sul mercato prodotti conformi “alla regola
dell’arte CEE”, offrendo, nel contempo, un ventaglio di possibilità per consentire agli stessi produttori di provare la conformità dei loro prodotti
a tale regola.
[22] Osserva
Carnevali, Prevenzione e risarcimento
nelle direttive comunitarie sulla sicurezza dei prodotti, cit., pp. 5-6,
che l’utilizzo delle norme tecniche da parte della Comunità ha avuto inizio con
la Risoluzione del Consiglio del 7 maggio 1985. Il c.d. nuovo approccio è retto
da quattro principi fondamentali sanciti dal Consiglio: l’armonizzazione
legislativa deve limitarsi ai requisiti fondamentali in materia di sicurezza (o
ad altri requisiti di interesse collettivo) che i prodotti commercializzati
devono soddisfare per essere messi in libera circolazione nella Comunità; il
compito di elaborare specifiche tecniche armonizzate deve essere affidato a
organismi competenti per la normalizzazione industriale e accreditati dalla
dir. 83/ 189/CE; le specifiche tecniche non debbono avere carattere
obbligatorio e rivestono carattere volontario; le amministrazioni sono tenute a
riconoscere ai prodotti fabbricati conformemente alle norme armonizzate una
presunzione di conformità ai requisiti fondamentali stabiliti dalla direttiva.
Qualora il produttore non fabbrichi attenendosi a tali norme, incomberà su di
lui un dovere di dimostrare la conformità di tali prodotti ai requisiti
fondamentali (sul punto si vedano le indicazioni riportate all’indirizzo http://europa.eu/legislation_
summaries/internal_market/single_market_for_goods/technical_harmonisation/l21001a_it.htm). Si vedano, inoltre, le osservazioni di
Salmoni, Le norme tecniche, Milano,
2001, p. 326, la quale precisa che le direttive prevedono come regola
un’armonizzazione totale: quindi solamente
i prodotti conformi possono essere commercializzati. In definitiva le direttive
fissano i requisiti essenziali di sicurezza e le norme armonizzate impongono le
specifiche tecniche secondo un modello definito di “rinvio agli standards”.
[23] Il
CENELEC (http://www.cenelec.eu) è il
Comitato europeo per la normalizzazione elettrotecnica; a questo ente è
affidato il compito di predisporre gli standards
tecnici mediante i quali viene definita la sicurezza ragionevole dei
prodotti elettrotecnici.
[24] Il
CEN (http://www.cen.eu/cen/AboutUs/Pages/default.aspx) è l’organismo che, in virtù dei poteri conferiti dalla dir. 98/34/CE,
emana gli standards tecnici a livello
europeo con riferimento a tutte le attività produttive eccetto quella della
tecnologia elettronica la cui competenza è riservata al CENELEC (http://www.cenelec.eu) e quella delle
telecomunicazioni, di competenza dell’ETSI (http://www.etsi.org).
[25] In
Europa il legislatore ha ritenuto che le norme tecniche potessero costituire
uno strumento di grande utilità economica e sociale. Tali norme, elaborate su
richiesta della Commissione Europea e citate in appositi elenchi nella
G.U.C.E., vengono dette “armonizzate”. Al riguardo si vedano le indicazioni
riportate nel sito ufficiale dell’U.N.I. (http://www.uni.com/)
e le osservazioni di Salmoni, Le norme
tecniche, cit., p. 326; Cagli, Organizzazione
procedure, cit., p. 175; Bellisario, sub
artt. 101-113, in Codice del
consumatore-Comm. a cura di Alpa, Rossi Carleo, Napoli, 2005, pp. 696-697.
[26] In
un primo momento le norme tecniche armonizzate si svilupparono per assecondare
la necessità – connaturata allo sviluppo della produzione industriale in serie
– di circostanziare il vago riferimento allo stato dell’arte dando vita a
regole tecniche standardizzate ed uniformi. Tale esigenza si è manifestata nei
diversi ordinamenti europei a partire dai primi anni del Novecento. Anche solo
in una prospettiva nazionale, l’esigenza di produrre beni ed erogare servizi
secondo standards qualitativi
uniformi fu assecondata, inizialmente, attraverso la creazione di enti deputati
alla produzione di norme tecniche uniformi e armonizzate. Il Comitato
Elettrotecnico Italiano (C.E.I.), fondato nel 1909, ha elaborato norme che
definivano la buona tecnica per i prodotti, per i processi e per gli impianti produttivi, costituendo il riferimento per la presunzione di conformità alla “regola
dell’arte”. In seguito per svolgere attività normativa tecnica in tutti i
settori esclusi quelli elettromagnetico ed elettronico (che ricadono nella
competenza del C.E.I.) è stato istituito l’U.N.I. (Ente Nazionale Italiano di
Unificazione), un’associazione privata senza fine di lucro fondata
nel 1921 e riconosciuta dallo
Stato e dall’Unione Europea, che studia,
elabora, approva e pubblica
le norme tecniche volontarie – le cosiddette “norme U.N.I.” – in tutti i settori
industriali, commerciali e del terziario (tranne in quelli elettrico ed
elettrotecnico). Il percorso brevemente descritto si è sviluppato
parallelamente in molti altri Stati. Così, nei diversi Paesi europei, anche
successivamente all’istituzione della Comunità Economica Europea operavano enti
di normazione che predisponevano regole non necessariamente armonizzate con
quelle di altri Stati. Per un lungo periodo, quindi, le norme tecniche emanate
dagli enti di normazione sono state concepite principalmente in un’ottica
nazionale ed hanno rivestito un’importanza decisamente marginale sotto il
profilo dei riflessi sui rapporti privatistici. In altre parole ogni
ordinamento disponeva di enti di normalizzazione che in modo autonomo
specificavano il concetto di stato dell’arte (Salmoni, Le norme tecniche, cit.,
p. 228).
[27] Nel
sito ufficiale dell’U.N.I-Ente Nazionale Italiano di Unificazione (http://www. uni.com/it) si legge che esso “è un’associazione privata
senza scopo di lucro” che “svolge attività normativa in tutti i settori
industriali, commerciali e del terziario ad esclusione di quello elettrico ed
elettrotecnico di competenza del C.E.I.-Comitato Elettrotecnico Italiano”. “Il
ruolo dell’U.N.I. quale Organismo nazionale italiano di normazione”, continua
la pagina di presentazione, “è stato
riconosciuto dalla dir. 83/189/CEE del marzo 1983, recepita dal Governo Italiano
con la l. n. 317 del 21 giugno 1986”.
L’U.N.I. partecipa, in rappresentanza dell’Italia, all’attività normativa degli organismi sovranazionali di normazione: I.S.O.
(International Organization for Standardization) e C.E.N. (Comité Européen de Normalisation). Le norme
armonizzate europee assumono un ruolo di preminenza e confinano l’operatività
delle regole nazionali ad una funzione
residuale e sussidiaria che viene in considerazione solo laddove
la regola europea sia assente. Pertanto gli enti di normalizzazione nazionali
(U.N.I. e C.E.I) – il cui riconoscimento ufficiale nei settori
di rispettiva competenza era già stato sancito
(l. n. 317/1986, attuativa della dir. 83/189/CEE) – conservano il loro ruolo,
ma assumono una posizione subordinata rispetto a quelli europei:essi, infatti, sono tenuti
a trasporre nel contesto nazionale
gli standards tecnici elaborati
dagli enti di normalizzazione europei.
Ciò non esclude l’esistenza di ambiti nei quali gli enti di normalizzazione nazionali possono predisporre regole
tecniche con una valenza limitata
al contesto interno;
tali regole, in ogni caso,
dovranno essere verificate sulla base di una procedura a livello comunitario, gestita dalla Commissione e assistita da un comitato
permanente di responsabili delle amministrazioni nazionali.
[28] Sul
problema della certificazione di conformità Bugiolacchi, Sicurezza dei prodotti
e certificazione: la responsabilità contrattuale degli organismi di valutazione
della conformità – [Product safety and certification: the contractual liability of the
conformity assessment parties], in Resp. civ. prev., 2013, p. 610 ss.
[29] L’articolata
disciplina in materia di sicurezza alimentare è stata ulteriormente
incrementata a seguito della approvazione nel 2011 del Food Safety Modernization Act (F.S.M.A.), con il quale sono state
implementate le misure di sicurezza funzionali a garantire che il cibo importato
dall’estero negli Stati Uniti presenti le caratteristiche di qualità richieste
dalla legislazione federale e dai regolamenti emanati dalla F.D.A. (cfr. amplius in http://www.fda.gov/ downloads/Food/FoodSafety/FSMA/UCM277713.pdf). In argomento v. Magli, La sicurezza alimentare tra norme
preventive, obblighi risarcitori ed autoresponsabilità del consumatore. Sistema italiano e modello statunitense a
confronto, Bologna,
2013.
[30] Le
funzioni della Consumer Product Safety
Commission sono incisivamente illustrate nel sito ufficiale (http://www.cpsc.gov/about/about.html) in cui viene chiarito che “The U.S. Consumer
Product Safety Commission is charged with protecting the public from
unreasonable risks of injury or death from thousands of types of consumer
products under the agency’s jurisdiction. The CPSC is committed to protecting
consumers and families from products that pose a fire, electrical, chemical, or
mechanical hazard or can injure children. The CPSC’s work to ensure the safety
of consumer products – such as toys, cribs, power tools, cigarette lighters,
and household chemicals – contributed significantly to the 30 percent decline in
the rate of deaths and injuries associated with consumer products over the past
30 years”.
[31] Per
un’analitica illustrazione delle origini, della struttura e delle funzioni
dell’Agency si rinvia al sito
ufficiale http://www.fda.gov/default.htm.
[32] Origini,
struttura e funzioni dell’Agency sono
diffusamente illustrate nel sito ufficiale http://www.nhtsa.gov/.
[33] Cfr. il sito ufficiale http://www.archives.gov/federal-register/the-federal-register/.
[34] Cfr. il sito ufficiale http://www.archives.gov/federal-register/cfr/.
[35] Cfr.
il sito ufficiale http://www.gpo.gov/fdsys/browse/collectionCfr.action?collection
Code=CFR.
[36] Con
questa espressione si indica la prevalenza delle leggi costituzionali e
federali su quelle statali. Nello specifico contesto della responsabilità del
produttore la preemption doctrine è
stata applicata al fine di sancire la prevalenza degli standards federali su quelli previsti dalle singole giurisdizioni e
costituisce uno strumento fondamentale per perseguire l’obiettivo della
armonizzazione degli standards di
sicurezza nei diversi stati. In argomento v. McGarity, The
Preemption War: When Federal Bureaucracies Trump Local Juries, New Haven London, 2008; Untereiner, The preemption defense in tort actions: Law
Strategy and Practice Washington D.C., 2008; O’Reilly, Federal Preemption of State and Local Law, Chicago, 2006; Dinh, Rassessing the law of Preemption, 88 Geo
L.J. 2085 (2000); Goldsmith, Statury
Foreign Affairs Preemption, Sup. Ct.
Rev. 175 (2000); Sharkey, Products
Liability Preemption: an Institutional Approch, 76 Geo. Wash. Law Rev., 449 (2008); Davis, On Restating Products Liability Preemption, 74 Brooklyn Law Rev. 759 (2009). Per un’esaustiva illustrazione in lingua italiana
Querci, Responsabilità da prodotto negli
Usa e in Europa. Le ragioni
di un revirement “globale”, in Nuova giur. civ. comm., 2011, p. 118.
[37] L’espressione
è di Carnevali, Prevenzione e risarcimento nelle direttive comunitarie sulla
sicurezza dei prodotti, cit., p. 12.
[38] Il
decisivo apporto fornito alla elaborazione interpretativa in materia di product liability statunitense da Calabresi, The Cost of Accidents. A
Legal and Economic
Analysis, New Haven and
London, 1970 emerge
chiaramente in molti
passi del Restatement Third.
[39] Restatement (Second) of Torts, Chapter
14, section 402 A, comment
i, p. 353.
[40] Cfr. Restatement (Second)
of Torts, Chapter
14, section 402 A, comment
i, p. 353.
[41] Sotto
questo profilo emerge il problema di contemperare i benefici connessi alla
diffusione di determinati prodotti ed i rischi che la stessa diffusione di quei
prodotti può comportare in termini di pericoli per l’integrità e la salute
delle persone. In proposito il Restatement Third, Torts: Products
Liability, Chapter 1, section 2, comment a, p.
16, chiarisce che la società, nel suo complesso, non trae un beneficio dalla
diffusione di excessively safe products.
In tal senso viene indicato l’esempio di automobili progettate per raggiungere una velocità massima di
20 miglia orarie. Secondo quanto si afferma nel comment a del Restatement
Third, Torts: Products
Liability, Chapter 1, section 2,
infatti, questo livello di sicurezza così elevato comporterebbe costi
eccessivi e limiterebbe sensibilmente il livello di utilità sociale
dell’automobile. Se ciò accadesse, si determinerebbe, di fatto, l’esclusione
dall’utilizzo di questa categoria di beni delle fasce di consumatori
economicamente più deboli. Questo fenomeno è stato intuito e profondamente
indagato già nei primi anni Settanta dagli studi statunitensi che, attraverso
l’analisi economica del diritto, misero in luce il problema di adottare scelte
di politica del diritto capaci di assicurare una razionale sopportazione dei
costi connessi alla diffusione di attività e prodotti indispensabili ma, al
tempo stesso inevitabilmente portatori di fattori di rischio per la salute
delle persone (Calabresi, The Cost of
Accidents: A Legal and Economic Analysis, New Haven, 1970). Così, nello studio che rappresenta tuttora un
imprescindibile punto di riferimento, Guido Calabresi sottolineava che “ogni
scelta relativa ad un prodotto, o all’uso di un prodotto, comporta, più o meno
implicitamente, una decisione in termini di sicurezza e di costo” (Calabresi, Costo degli
incidenti e responsabilità civile. Analisi economico-giuridica, traduzione di De Vita, Varano, Vigoriti, Presentazione di S. Rodotà, Milano,
1975, ristampa inalterata con Presentazione
di Al Mureden, Milano, 2015, p. 40). Sotto questo profilo risulta
estremamente incisivo l’esempio considerato da Calabresi proprio riguardo alle
scelte adottate in materia di
sicurezza delle automobili. Egli notava, già negli anni Settanta, che da molto
tempo la tecnica consentiva di costruire automobili assolutamente sicure e
quindi di ridurre drasticamente gli incidenti a cui conseguono lesioni serie o
letali per gli occupanti. La
sicurezza, tuttavia, sottolinea Calabresi, “costa” e la scelta di costruire
auto che offrano un livello di sicurezza solamente ragionevole, ma assai
lontano da quello appena indicato, costituisce un’emblematica dimostrazione di
come l’ordinamento adotti scelte di compromesso che consentono di contemperare
le esigenze di tutela della vita della salute umana con altre esigenze
antagonistiche. In termini più generali, ed ancora più espliciti, lo stesso
Calabresi osserva che le lesioni e gli incidenti letali inevitabilmente
correlati alla circolazione stradale ed alla diffusione di altri prodotti può
essere osservata come “un insignificante peso da pagare per una società in
progresso tecnologico che, poiché si è affidata ad un progresso di questo tipo, può curare la difterite, la
polmonite e tutta una serie di malattie del passato” (Calabresi, Il dono dello spirito maligno, Milano,
1996, traduzione di C. Rodotà, con Presentazione
di Mazzoni, p. 20). Con riferimento all’ordinamento italiano Carnevali, Prevenzione e risarcimento nelle
direttive comunitarie sulla
sicurezza dei prodotti, cit., p. 15 osserva che «
gli standards stabiliti dalle
direttive sulla sicurezza rappresentano un equilibrato punto di incontro tra le
esigenze dell’industria a programmare e le legittime aspettative degli utenti e
consumatori sulla sicurezza d’uso di un prodotto che non può essere assoluta »
(sul punto si veda anche Carnevali, voce Nuovi
prodotti dannosi, in XXI Secolo, Enc. giur. Treccani, Roma, 2009, p. 347
ss.). Nel contesto europeo considerazioni analoghe riecheggiano in un
importante studio della metà degli anni Ottanta (Beck, La società del rischio:
verso una seconda modernità, edizione italiana a cura di Privitera, Roma,
2000, pp. 84-92) nel quale, con un’espressione particolarmente incisiva e
carica di giudizi decisamente critici, si è messo in luce il cd. “imbroglio dei
valori massimi consentiti” proprio per indicare che il riferimento a soglie
“accettabili” di esposizione a fattori di rischio finisce per rendere possibile
“una razione permanente di avvelenamento collettivo standardizzato”.
[42] Il comment e del Restatement Third, Torts: Products Liability
section 4, chiarisce che “when a product design is in violation of a safety
statute or regulation, there is no necessity to prove an alternative design in
order to establish defect. Section 4 makes it clear that a product design that
is in violation of safety standards is defective per se”.
[43] Il
comment e Restatement Third, Torts:
Products Liability section 4, p. 121, precisa che occorre che la regola violata
sia chiara e che essa imponga l’adozione di determinati standards;
dunque ove la regola abbia una valenza facoltativa e nei casi in cui non sia
univoca, non è possibile addivenire ad un giudizio di difettosità rispetto al
prodotto che non si allinei ad essa.
[44] In
questo senso si veda la decisione Feldman
v. Lederle Labs., 132 N.J. 339, 625 A.2d 1066 (1993), relativa ad un danno
permanente cagionato a seguito dell’utilizzo di un farmaco in età infantile. Il
rispetto delle regole federali in materia di istruzioni sull’impiego del
farmaco non fu ritenuto sufficiente ad escludere una responsabilità del
fabbricante, che avrebbe dovuto adottare precauzioni addizionali ed informare
il consumatore anche sotto questo specifico profilo.
[45] Il
comment e Restatement Third, Torts: Products Liability section 4, p. 123,
chiarisce che questa è la regola seguita nella maggior parte dei precedenti. In
linea di principio le regole recenti, che non siano rese obsolete da
innovazioni tecnologiche e che siano state formulate a seguito di un
procedimento completo, trasparente e supportato da studi scientifici condivisi
vengono ampiamente considerate. Così nella decisione Miller v. Lee Apparel CO.
11/8/1994, è stato negato
il risarcimento del danno subito
da un indumento in poliestere che aveva preso fuoco in una situazione
particolarmente critica. L’indumento in questione, infatti, risultava
rispettoso degli standards federali
in materia di infiammabilità. Occorre rilevare, peraltro, che in dottrina è
stato posto in evidenza il problema dei conflitti di interesse e delle
pressioni esercitate dalle lobbies sull’attività
di roulemaking delle Agencies ed è stata suggerita l’adozione
di un approccio interpretativo secondo il quale – ove lo standard legislativo risulti obsoleto o comunque inadeguato a
fornire un ragionevole livello di protezione – sarebbe opportuno che la Corte
attribuisse un rilevo assai limitato
alla compliance defense e potesse considerare il prodotto difettoso
anche qualora esso sia conforme agli standards
legali (in tal senso v. Johnson, Liberating Progress and the Free Market
from the Specter
of Tort Liability, 83 Nw. U. L. Rev. 1026,
1048-54 (1989)). Cfr. il comment
e Restatement Third, Torts:
Products Liability section
4, p. 123.
[46] Il
Restatement (Second) of Torts, Chapter
14, section 402 A, comment k, p. 353, menziona a tale proposito l’es. dei
vaccini, delle bevande alcoliche e dei farmaci.
[47] Nella leading decision
Geier v. American
Honda Company, 529 U.S. 861 (2000),
riguardante il danno subito dal conducente a causa della mancata installazione dell’air bag sulla sua auto, la Corte Suprema
ha escluso la responsabilità del produttore affermando il principio secondo
cui detta responsabilità è esclusa ove sia riscontrabile un’indicazione del
legislatore federale che attribuisce agli standards
di sicurezza la valenza di “limite massimo” di sicurezza (implied preemption), conseguito il quale
non è configurabile un danno ingiusto meritevole di essere risarcito. Tale
principio è stato ulteriormente ribadito nella
successiva decisione Morgan v. Ford Motor
Co., No. 34139
(W.V. Sup. Jun.
18, 2009).
[48] Cfr.
la leading decision Wyeth v. Levine,
555 U.S. No. 06-1249, March 4, 2009, concernente un danno cagionato
dall’utilizzo di un farmaco non corredato da adeguate informazioni volte
a garantire un uso ragionevolmente privo di rischi.
In questo caso la tesi secondo cui non avrebbe potuto
essere instaurata un’azione di responsabilità per difetto di informazione
laddove il produttore avesse fornito le informazioni richieste secondo gli standards previsti dalla stessa F.D.A.
non fu accolta dalla Corte che, invece, affermò la responsabilità del fabbricante. Ciò perché nel Food and Drug Cosmetic Act,
è prevista una saving
clause in ragione della quale la legislazione statale più stringente della
regola federale o comunque non in contra
sto con essa può essere
esclusa dall’effetto della preemption.
In tal caso,
pertanto, la conformità allo standard federale non risultò sufficiente ad escludere una responsabilità del fabbricante.
[49] Negli
Stati Uniti la protezione della salute dei consumatori viene assicurata
attraverso previsioni in materia di etichettatura che rimettono alle opzioni
della singola persona debitamente informata
la decisione di sottoporsi ai rischi inevitabilmente connessi al consumo di tabacco (15 USC § 1331-Congressional Declaration of Policy
and Purpose). Così i
doveri di informazione dei produttori di tabacco vengono regolati con una articolata
previsione che descrive dettagliatamente la tipologia di messaggi e le modalità
grafiche50 da adottare per rendere immediatamente percepibili ai consumatori i gravi rischi connessi al consumo di sigarette e
altri prodotti affini (15 USC § 1333-Labeling;
Requirements; Conspicuous Statement). Tale previsione è correlata da una clausola
esplicita di preemption (15
USC § 1334-Preemption). La normativa
attuale appare in linea con una scelta di politica
del diritto già ampiamente consolidata e risalente al Public Health Cigarette Smoking Act del 1969, che
rappresentò, ad opinione di alcuni interpreti, un vero e proprio “scudo” contro
le azioni di responsabilità intentate nei riguardi dei produttori sulla base di
leggi dei singoli stati. L’assunto secondo cui il rispetto dei doveri imposti
ai produttori di sigarette dalla legislazione federale costituisce un “limite
massimo” conseguito il quale non è configurabile alcuna responsabilità è stato
efficacemente confermato dalla leading
decision Cipollone v. Liggett Group, Inc., 505 U.S. 504, 530 n. 27 (1997), in cui fu sancito che il Public Health Cigarette Smoking Act del
1969 prevedeva una clausola di preemption
esplicita capace di inibire le azioni risarcitorie promosse contro i
produttori che si fossero attenuti agli obblighi imposti dalla legge.
L’orientamento appena riportato ha trovato ulteriori conferme in tempi più
recenti. Così, un’altra importante decisione (Altria Group v. Good, 555 U.S. 70 (2008)) ha confermato che il
Congresso ha manifestato l’intenzione di adottare un unico standard federale per quanto concerne le informazioni da fornire ai
potenziali consumatori di prodotti derivati dal tabacco ed ha chiaramente
inteso attribuire ad esso la valenza di uno standard massimo (15 U. S. C. §1334(b). Tale scelta risponde
alla fondamentale esigenza di rimuovere ostacoli
alla circolazione delle
merci tra i diversi stati americani; esigenza che
risulterebbe drasticamente compromessa dalla frammentazione delle singole
discipline nazionali. L’adozione di una soluzione
che non tenga conto delle finalità di armonizzazione che sottendono la legislazione federale, del resto, finirebbe per dare vita ad una espansione incontrollata di azioni legali basate sulla presenza
di difetti d’informazione. Per una esaustiva
ricostruzione del problema negli Stati Uniti e nell’Unione Europea v. Howells, The Tobacco Challenge. Legal Policy and Consumer Protection,
Ashgate, 2011.
[50] Uno
dei contesti nei quali è possibile percepire con maggiore chiarezza la funzione
della preemption doctrine come limite
alla responsabilità civile e comprendere le ragioni poste al suo fondamento è
indubbiamente quello delle decisioni relative ai possibili profili di dannosità
connessi all’utilizzo intensivo del telefono cellulare. L’assunto secondo cui
la responsabilità del produttore deve
arrestarsi di fronte al rispetto delle norme tecniche in cui è sintetizzato lo
stato dell’arte – già sancito in precedenza dalla decisione Murray v. Motorola, Inc., 982 A.2d 764
(D.C. 2009) – ha trovato la sua conferma più significativa nella decisione Farina v.
Nokia, 625 F. 3d 97,
2010 U.S. App.
Lexis 22.383, 51,
Comm. Reg. (P & F) 955. In questo caso era stata promossa una class action volta ad accertare la pericolosità
dei telefoni cellulari nelle condizioni di utilizzo normale
previste dagli standards elaborati a livello federale
dalla Federal Communication Commission (FCC). Tali
standards, infatti, risultavano meno protettivi di quelli previsti
dalla legge della
Pennsylvania soprattutto laddove
non imponevano l’adozione di accorgimenti necessari (in particolare gli auricolari) a ridurre al minimo il rischio di patologie connesse all’emissione di radiofrequenze né la previsione di avvertenze volte ad incentivare un utilizzo responsabile e sicuro. La Corte Suprema,
invero, ha escluso
profili di responsabilità in capo al produttore che si limiti
ad adeguarsi agli standards
di sicurezza federali e commercializzi telefoni non dotati dell’auricolare. La decisione assume particolare interesse
in quanto – nel ribadire
il principio della
prevalenza degli standards di
sicurezza adottati a livello federale rispetto a quelli sanciti
dalla legislazione statale
– sottolinea significativamente la necessità di individuare nel conseguimento di un livello
di “sicurezza ragionevole” un limite alla
responsabilità del produttore ed illustra puntualmente le ragioni di ordine
generale che giustificano questa
scelta di politica
del diritto. Infatti,
la permanenza di una rete di telecomunicazione capace di coprire tutto
il territorio federale, precisa la motivazione, richiede necessariamente un’uniformità federale degli standards di sicurezza. In questa prospettiva gli standards sanciti dall’Agenzia federale che governa il settore delle telecomunicazioni (Federal
Communication Commission F.C.C.) debbono essere osservati come il risultato
di complesse valutazioni che tengono in considerazione, da un lato, l’esigenza di tutelare la salute e, al tempo stesso, quelle di corretto
funzionamento del sistema e dei costi necessari per raggiungere tale obiettivo.
Qualora si ammettesse la possibilità di mettere in discussione gli standards
federali attribuendo rilievo
a valutazioni diverse
operate dai singoli
legislatori nazionali, o addirittura sancite
da letture giurisprudenziali, si finirebbe per infrangere l’unità
del sistema. Assoggettare la disciplina della
rete di telecomunicazioni estesa su tutto
il territorio federale ad una regolamentazione statale frammentaria (patchwork) comporterebbe costi insostenibili. Poiché – continua
la motivazione – l’Agenzia federale
è indubbiamente nella migliore posizione per bilanciare gli obiettivi della
legge federale con le esigenze
di tutela della salute e gli standards che essa individua non possono essere messi in
discussione (secondguess) né dalla legislazione statale, né, a maggior ragione,
da azioni di responsabilità basate su
legislazione statale (c.d. preemption doctrine).
[51] I
risvolti applicativi della preemption theory
emergono anche nell’ambito dei doveri di informazione che gravano sui
produttori di bevande alcoliche. Fino agli anni Ottanta, in assenza di un
espresso dovere di informare i consumatori circa i rischi per la salute
connessi ad un eccessivo consumo di bevande alcoliche, la giurisprudenza aveva
fornito soluzioni non univoche riguardo alla responsabilità dei produttori per
difetto di informazione. Secondo l’indirizzo prevalente non poteva configurarsi
una responsabilità dei produttori di alcool per difetto di informazione in quanto la consapevolezza circa i rischi connessi ad un consumo
eccessivo era radicata
e diffusa (c.d.
common knowledge). D’altra
parte, seguendo un approccio maggiormente orientato verso la protezione della
salute dei consumatori, alcune corti
avevano affermato una responsabilità dei produttori che non avevano
informato adeguatamente i consumatori circa i rischi inevitabilmente correlati
al consumo eccessivo di bevande alcoliche. La questione è stata risolta
legislativamente nel 1988, quando il Congresso ha emanato l’Alcholic Beverage
Labelling Act ed ha imposto
ai produttori l’indicazione di messaggi che sottolineassero i rischi connessi ad
una assunzione eccessiva di bevande alcoliche ed inducessero le persone ad adottare stili di vita corretti ed optare per un “consumo
responsabile”54. La previsione, contenuta nel 27 U.S.C.
§ 215, infatti, è accompagnata da una clausola
espressa di preemption
(27 U.S.C. § 216); le dettagliate disposizioni regolamentari (regulations) che specificano secondo
quali modalità confezionare le etichette e fornire le informazioni sono compendiate nel Code of Federal
Regulations che indica persino quale debba essere il testo da inserire nelle etichette (27 CFR 16.21-Mandatory Label Information)55 operando distinzioni a seconda delle diverse tipologie
di prodotti alcolici56. In definitiva, dopo la definizione legislativa delle informazioni da comunicare ai consumatori di
bevande alcoliche, la possibilità di configurare una responsabilità per difetto di informazione è limitata alle ipotesi in cui il produttore non si adegui allo standard indicato dal legislatore; al tempo stesso il rispetto
di quello standard assicura al produttore l’esenzione da qualsiasi responsabilità per i danni
riconducibili ad un consumo eccessivo
di alcool (Owen, Products Liability Law,
Thompson West, St. Paul, MN,
II ed., 2008,
p. 704).
[52] Sul punto v. Genevieve
G. York-Erwin, The choice of law problem(s) in the class action context, in 84 N.Y.U. Law Rev.
1793, 2009, in cui si chiarisce che:”The class
action mechanism allows groups of plaintiffs to combine their claims and
sue defendants collectively pursuant to Rule 23 of the Federal Rules of Civil Procedure. Certification is the process by
which a court determines that a proposed class’s claims are suitable for
collective treatment under
Rule 23 or its state-law equivalent. If certified as a class,
all class members and defendants are bound by the results
of the collective action”.
[53] Sui
punitive damages si veda la section 908
del Restatement Second, Torts del
1979. Sull’esigenza di limitarne l’espansione v. Schlueter, Punitive Damages, Lexis Nexis, VI ed.,
2010, I, p, 31; Vidmar and Wolfe, Punitive
Damages, Annual Review of Law and Social Science, 2009,
vol. 5, pp.
179-199. Per una
riflessione sul ruolo
dei punitive damages nella
definizione delle funzioni della responsabilità civile, Calabresi, The Complexity of Torts-The Case of Punitive
Damages, Madden (edited by), Exploring
Tort Law, New York, 2005, p. 333 e in part.
p. 338, ove richiama la concurring
opinion espressa nella
decisione Ciraolo v. City of N.Y., 216 F.3d 236 (2nd Cir.), nonché la opinion espressa da Posner nella decisione Federal Deposit
Insurance Corporation v.
W.R. Grace & Co.
877 F.2d 614; Calabresi, A Broader
View of the Cathedral: The
Significance of the
Liability Rule, Correcting a Misapprehension, p. 7; A. Mitchell
Polinsky & Steven Shavell, Punitive
Damages: An Economic Analysis, 111, Harvard
Law Rev. 869, 887-96 (1998); Catherine
M. Sharkey, Punitive Damages
as Societal Damages, 113 Yale Law J. 347,
363-72 (2003). L’interesse degli interpreti italiani per questo strumento e la
necessità di osservarlo anche nella prospettiva dell’analisi economica del diritto
è emerso in particolare nei contributi di Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi,
in Europa e dir. priv., 2009, p. 909;
Ponzanelli, I danni punitivi, in Nuova giur. civ. comm., 2008,
II, p. 25;
P. Pardolesi, Danni punitivi: frustrazione da “vorrei, ma non posso”?, in Riv. crit. dir. priv., 2007, p. 341. La necessità
di uno strumento idoneo ad attuare una finalità di deterrenza è stata auspicata con
crescente insistenza anche nel contesto del nostro ordinamento. In questo senso
Patti, Il risarcimento del danno e il concetto
di prevenzione, in Busnelli e Patti, Danno e responsabilità civile, III ed., Torino,
2013, p. 99, osserva che con specifico riferimento alla materia dei
prodotti difettosi “la semplice condanna alla riparazione, cioè al pagamento del danno causato,
non permette in molti casi il perseguimento delle finalità preventiva, propria della responsabilità civile”.
[54] The Blu Guide on the Implementation of EU Product
Rules, cit., p. 10.
[55] Con
riferimento ai danni provocati da una scala difettosa Trib. Milano 31 gennaio
2003, in Resp. civ. e prev., 2003, p.
1151, con nota di Della Bella, Cedimento
di scala estensibile e responsabilità del produttore-progettista: la nozione di danneggiato nella disciplina della responsabilità del
produttore; in Danno e resp.,
2003, p. 634, con nota di Bitetto, Oltre
la siepe: la scala del giardiniere e la responsabilità da prodotto difettoso! Relativamente ai danni cagionati
da una caffettiera, Trib. Vercelli
7 aprile 2003, in Danno e resp., 2003, p. 1001, con nota di Ponzanelli, Responsabilità oggettiva del produttore e difetto
di informazione.
[56] Cabella Pisu,
Cittadini e consumatori nel diritto dell’Unione Europea, cit., p. 635.
[57] Relativamente
ai danni cagionati dallo scoppio di bombole a gas Cass. 4 giugno 1998, n. 5484,
in Studium Juris, 1998, p. 1119;
Cass. 19 gennaio 1995, n. 567, in Mass. Giust. civ., 1995, c. 97; più di recente, Cass. 26 luglio 2012, n. 13214, in De jure. Riguardo ai danni provocati da farmaci
Trib. Salerno 2 ottobre 2007, in Rass.
dir. farmaceutico, 2008, p. 29; Trib. Brescia
31 marzo 2003, in Rass. dir. farmaceutico, 2004, p. 1221.
[58] In
materia di danni cagionati da prodotti cosmetici v. Cass., 15 marzo 2007, n.
6007, in Resp. civ.
e prev., 2007,
II, p. 1587,
con nota di Gorgoni, Responsabilità per
prodotto difettoso: alla ricerca
della (prova della)
causa del danno; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25116, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 590, con nota di Klesta Dosi, L’incerta disciplina dei prodotti
abbronzanti. Riguardo ai danni provocati dall’utilizzo di un motoveicolo
Trib. Pisa 16 marzo 2011, in Resp. civ. e prev., 2011, 10, p. 2108, con nota di Carnevali, Il difetto di progettazione negli autoveicoli;
in Danno e resp., 2012, p. 67, con
nota di Bitetto, Dal biscotto al pan carrè:
il tortuoso percorso
della responsabilità da prodotto.
[59] Cass.
29 maggio 2013, n. 13458, in Danno e resp., 2014, con nota di Baldassarre,
Responsabilità del produttore: danno risarcibile, onere della prova e logica giuridica.
[60] Cass.
15 marzo 2007 n. 6007, cit.; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25116, cit.
[61] Trib.
Milano, sez. X, 11 luglio 2014, in Danno
e resp., 2014, con nota di Ponzanelli, I
danni da fumo: la nuova giurisprudenza milanese.
[62] Cass.
17 dicembre 2009, n. 26516, in Danno e resp., 2011, p. 57, con nota di
Monateri, La Cassazione e i danni del fumo: evitare
un ennesimo “isolamento” italiano; in Corr.
giur., 2010, p. 488, con nota di Ponzanelli, La produzione di sigarette è
attività pericolosa; in Danno e resp., 2010, p. 569, con nota di D’Antoni, Il
danno da fumo e l’art. 2050 c.c.: “scusate
il ritardo”, che ha sancito
il carattere pericoloso dell’attività di produzione e commercializzazione di prodotti
derivati dal tabacco.
[63] Cass. 17 dicembre 2009,
n. 26516, cit.
[64] Trib. Pisa 16 marzo
2011, cit.
[65] In
questo senso, Monateri, La Cassazione e i danni del fumo: evitare un ennesimo “isolamento” italiano, cit., p. 57.
[66] Sul
principio di precauzione De Leonardis, Il principio di precauzione
nell’amministrazione del rischio, Milano, 2005; Del Prato, Il principio di precauzione
nel diritto privato: spunti, in Rass. dir. civ., 2009, p. 637; Busnelli, Il
principio di precauzione e l’impiego di biotecnologie in agricoltura, in Regole
dell’agricoltura, Regole del cibo a cura di Goldoni e Sirsi, Pisa, 2005, pp.
115 ss; Santonastaso, Principio di precauzione e responsabilità di impresa:
rischio tecnologico, le attività pericolosa per sua natura. Prime riflessioni in tema di ricerca, in Contr. impr./Eu., 2005, pp. 21-24.
[67] Cfr.
il documento predisposto dal Comitato Nazionale di Bioetica (C.N.B.) Il Principio di precauzione: profili
bioetica, filosofici, giuridici, pubblicato il 18 giugno 2004 e reperibile
all’indirizzo http://www.governo.it/BIOETICA, p. 37.
[68] Sul
punto v. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, Padova, 2004.
[69] La
possibilità di liberarsi dalla responsabilità adducendo la mancanza di
conoscenze scientifiche circa la pericolosità del prodotto al momento della sua
commercializzazione (cd. rischio da sviluppo) sembra porsi ad opinione di
alcuni interpreti che si sono occupati della responsabilità del fabbricante di
alimenti (Giardina, La responsabilità civile del produttore di alimenti, in Regole dell’agricoltura, Regole
del cibo, cit.,
p. 101; Galasso, Il principio di precauzione nella
disciplina degli OGM,
Torino, 2007, p. 60) in contrasto con il principio di
precauzione che l’art. 7 del reg. (Ce) n. 178/2002 sancisce in termini generali
per tutti i prodotti alimentari.
[70] L’espressione è di Giardina, La responsabilità civile
del produttore di alimenti, cit., p.101.
[71] Sui
rapporti tra rischio da sviluppo e applicazione dell’art. 2050 c.c. si veda
Querci, Il rischio da sviluppo: origini
ed evoluzioni nella moderna “società del rischio”, in “I 25 anni di products liability”, in Danno e resp., 2012, p. 31.
[72] Trib. I grado Comunità
europee 21 ottobre
2003, n. 392/02.
[73] In
definitiva il principio di precauzione costituisce un “nuovo parametro della
valutazione della legittimità dell’azione amministrativa” (De Leonardis, Il principio di precauzione
nell’amministrazione del rischio, cit., p. 140) e, si potrebbe aggiungere,
delle stesse leggi. Esso, quindi, è rivolto in primo luogo al legislatore o
all’amministrazione, chiamati ad adottare
provvedimenti capaci di contemperare le esigenze di tutela della
salute con quelle della
libera iniziativa economica e della tutela
del mercato.
[74] Corte
giust. Ce 9 settembre 2003, n. 236/01; Trib. I grado Comunità europee 21
ottobre 2003, n. 392/02.
[75] Più
precisamente, la Corte giustizia ed il Tribunale di primo grado delle Comunità
europee (nel contesto comunitario) e la Corte costituzionale, il T.A.R. ed il
Consiglio di Stato (nel contesto interno) verificano che le norme in cui si
esprime il principio di precauzione siano giustificate dall’effettiva presenza
di rischi che – pur non compiutamente dimostrati – si basino su dati
scientifici attendibili. Il raffronto del provvedimento o della legge con i
dati scientifici è stato ritenuto decisivo, ad es., per stabilire se la
legislazione restrittiva dell’uso dei coloranti alimentari (cfr. il caso Motte; Corte giust., 10 dicembre 1985,
C-247/84, Motte, in Racc., 1985, p. 3887), di additivi per
pasticceria (cfr. il caso Muller,
Corte giust., 6 maggio 1986, C-304/84, Muller)
o di quelli utilizzati per la preparazione di una nota Energy drink si basi su rischi sufficientemente dimostrati (Commissione/Francia Corte giust. 5
febbraio 2004, C-24/ 00, Commissione/Francia).
[76] In
senso critico, tuttavia, si veda Comandé, La responsabilità civile per danno da
prodotto difettoso… assunta
con ‘precauzione’, in Danno e resp., 2013, p. 107 ss.
[77] Del
resto, la necessità di garantire a tutti coloro che operano in un mercato unico una tendenziale prevedibilità dei
giudizi e dei costi inevitabilmente connessi ai danni provocati dalle attività
dei prodotti costituisce un elemento fondamentale per la creazione e la sopravvivenza di uno spazio economico unico. In tal senso si vedano le osservazioni di Busnelli e Ponzanelli, La responsabilità del produttore tra legge
speciale e Codice civile, in Il danno da prodotti in Italia, Austria, Repubblica federale di Germania, Svizzera, a cura di Patti, Padova, 1990, p. 28, ove si
richiama il passo della relazione al progetto di decreto legislativo sulla
responsabilità del fabbricante (n. 4) nel quale si rimarca l’esigenza di
contenere la responsabilità del produttore entro precisi limiti “idonei a
rendere calcolabile il rischio, eliminando le punte del tutto straordinarie ed atipiche”.
[78] Cfr.
Cass. 31 marzo 2011, n. 7441, in Resp.
civ. e prev., 2011, p. 158, con nota di Carnevali, Farmaci difettosi e autorizzazione ministeriale.
[79] Cass. 15 marzo 2007 n. 6007, cit.