Professora de Direito Romano e Direitos da Antiguidade da Universidade de Caligari
mavisanna@alice.it
RIASSUNTO: Questo articolo intende discutere la teoria della
dottrina dominante secondo il terzo capitolo della lex Aquilia che considera
solo i “ceterae res”. Nella più antica interpretazione della lex, infatti,
Bruto non estende il “rumpere” agli schiavi e ai “pecudes”, ma estende la
nozione di “rumpere”, prima legata agli schiavi e ai “pecudes”, all'aborto.
Bruto usa l'espressione “quasi rupto” perché non c'è contatto “corpore” con il
feto, una cosa ronzante, mentre Q. Mucio usa “rumpere” perché, secondo lui, c'è
un contatto “corpore” con l'equa, una cosa retta.
PAROLE CHIAVE: Aborto. Lex Aquilia. Dano. Rumpere.
RESUMO: Este artigo pretende debater a teoria da doutrina dominante de acordo com o terceiro capítulo da lex Aquilia considera apenas a “ceterae res”. Na interpretação mais antiga da lex, de fato, Brutus não estende o “rumpere” aos escravos e “pecudes”, mas estende a noção de “rumpere”, antes relacionada aos escravos e pecudes, ao aborto. Brutus usa a expressão “quasi rupto” porque não existe um contato “corpore” com o feto, uma coisa ruptum, enquanto Q. Mucius usa “rumpere” porque, segundo ele, há um “corpore” de contato com o equa , uma coisa ruptuma.
PALAVRAS-CHAVE:
Aborto. Lex Aquilia. Dano.
Rumpere.
ABSTRACT: This article intends to debate the theory of
the dominant doctrine according to the third chapter of the lex Aquilia considers only the “ceterae res”. In the most ancient
interpretation of the lex, in fact,
Brutus doesn’t extend the “rumpere”
to slaves and “pecudes”, but extends
the notion of “rumpere”, before
related to slaves and “pecudes”, to
abortion. Brutus uses the expression “quasi
rupto” because there isn’t a contact “corpore”
with the fetus, a ruptum thing, while Q. Mucius uses “rumpere” because, according to him,
there is a contact “corpore” with the
equa, a ruptum thing.
KEYWORDS: Abortion. Lex Aquilia. Damage. Rumpere
1. Il problema
della rilevanza dell’aborto provocato ad una cavalla (o a una schiava) ex lege Aquilia è affrontato da due
giuristi repubblicani, i cui pareri sono riportati da Ulpiano e da Pomponio in: Ulp. 18 ad ed. D. 9, 2, 27, 22: Si mulier
pugno vel equa ictu a te percussa eiecerit, Brutus ait Aquilia teneri quasi
rupto Pomp. 17 ad Q. Muc.: D. 9, 2, 39 pr.: Quintus Mucius scribit: equa cum in
alieno pasceretur, in cogendo quod praegnas erat eiecit: quaerebatur, dominus
eius possetne cum eo qui coegisset lege Aquilia agere, quia equam in iciendo
ruperat. Si percussisset aut consulto vehementius egisset, visum est agere
posse[1]
Per Bruto,
afferma Ulpiano, si sarà tenuti ex lege Aquilia quasi rupto se una schiava o
una cavalla, pregnantes, percosse la prima pugno la seconda ictu[2], espellono il feto; per Quinto Mucio,
riferisce Pomponio, il dominus di una cavalla praegnas - che pascolando su un
fondo altrui e venendo da questo scacciata avesse espulso il feto - poteva
agire ex lege Aquilia cum eo qui coegisset, ma solo se la cavalla era stata
percossa o scacciata consulto con più veemenza del necessario.
Mentre Quinto
Mucio, che scrive una cinquantina d’anni dopo Bruto, parla di ruptio della
cavalla (quia equam in iciendo ruperat), Bruto utilizza il sintagma quasi
rupto; non sembra, dunque, estendere il significato di rumpere sino a
comprendervi il caso dell’aborto, probabilmente perché non era ancora giunto,
diversamente da Quinto Mucio, ad intendere il rumpere come corrumpere,
estensione, pure, dovuta ai veteres secondo il noto
· Ulp.
18 ad ed. D. 9, 2, 27, 13: Inquit lex ruperit. Rupisse verbum fere omnes
veteres sic intellexerunt corruperit[3].
Bruto fu
probabilmente pretore nel 142 a.C.[4], Quinto Mucio console nel 95[5]; dal momento che ci troviamo davanti alle
prime testimonianze dell’attività interpretativa della lex Aquilia[6], per una loro corretta lettura è forse utile
soffermarsi preliminarmente sulla datazione della lex.
Accettando la
datazione tradizionale del 286 a. C.[7], il responso di Bruto riferito da Ulpiano
si collocherebbe a 140/150 anni dalla sua emanazione; buona parte della
dottrina ha, peraltro, messo in discussione tale datazione, che si basa sulla
Parafrasi di Teofilo 4, 3, 15[8], in cui si ricorda una διάστασις fra plebe e Senato e su uno scolio ad
Bas. 60, 3, 1, 4, in cui si tratta di una sollevazione e separazione della
plebe (ἐστασίασε τὸ πλῆθος πρὸς τοὺς συγκλητικοὺς καὶ διέστε ἀπ’αὐτῶν). Dato che in D.
9, 2, 1, 1 si afferma che la lex Aquilia è un plebiscito, emanato quando era
tribuno delle plebe Aquilio, che delle tre secessioni della plebe di cui si ha
notizia una è del 494, una del 449, una del 286, l’unica data plausibile
sarebbe quella del 286 a.C., che coincide con l’approvazione della lex
Hortensia, con cui si stabilì che i plebisciti avessero valore di legge[9].
Se per alcuni[10] nella Parafrasi col termine διάστασις Teofilo potrebbe non riferirsi ad una
secessione della plebe ma a semplici contrasti tra la plebe e il Senato, altri[11], pur ritenendo ricavabile dal passo il
collegamento con la secessione, pongono in evidenza che Teofilo era mosso
dall’intento di giustificare l'assenza del termine plurimi nel terzo caput
della lex, valutando se tale omissione nel plebiscito, atto votato dalla plebe
nel corso della secessione, fosse frutto di una precisa volontà politica della
stessa plebe[12]; anche l’accenno nello scolio dei
Basilici ad una seditio non sarebbe ricollegabile espressamente alla lex
Aquilia, ma servirebbe a spiegare il significato del termine plebiscito[13]. Confrontando il passo della Parafrasi
con Gai 3,218[14] e con le Istituzioni di Giustiniano[15], si nota, osserva la Bignardi[16], che Gaio e Sabino, a proposito
dell’omissione nel terzo caput del termine plurimi, affermano che legis latorem
contentum fuisse, quod prima parte eo verbo usus esset, mentre Giustiniano e
Teofilo non parlano di legis lator ma di plebs[17]: si sarebbe, probabilmente, enfatizzato
il riferimento alla secessione per avvalorare l’idea che fosse stata la plebe
ad accontentarsi di ottenere l’inserimento del plurimi nel primo caput. Per
l’autrice l’improponibilità dell'indicazione di Teofilo risulta poi anche dal
contenuto stesso della lex Aquilia; la maggioranza dei provvedimenti adottati
dalle assemblee plebee - fatta eccezione per quelli di carattere più
strettamente politico - riguardavano, infatti, la distribuzione delle terre e
la riduzione dei debiti, ma la lex Aquilia, sanzionando i delitti contro i beni
con l'obbligo di pagare al proprietario il maggior valore di quanto distrutto,
dimostrerebbe “di essere un provvedimento assunto nell'interesse di una
categoria di soggetti nella quale - all'epoca a cui il plebiscito viene
tradizionalmente riferito - rientravano certamente tutti i patrizi, ma
sicuramente non molti plebei”, nonostante l'esistenza di famiglie plebee
ricche. Non solo l'affermazione di Teofilo risulterebbe allora priva di senso
comune, ma altrettanto infondata apparirebbe la datazione della legge in epoca
così risalente.
Se le fonti che
hanno portato a fissare come unica data possibile quella della secessione della
plebe verificatasi nel 286 a.C.[18] non sembrano, dunque, fornire una
testimonianza univoca, non sono mancate proposte di datazioni meno risalenti:
l’Honoré[19], ritenendo comprensibile la pena
variabile prevista dalla lex Aquilia solo in un periodo di forte inflazione, la
colloca tra il 207 e il 195 a.C., alla fine della II guerra punica; per il
Cannata[20], la lex è da attribuire all’epoca di
Sesto Pedio e forse a Publio Aquilio, che deve essere stato tribuno della plebe
nel 210 a.C.; anche il Serrao[21], per il quale la lex Aquilia,
“espressione di un’economia schiavistica piuttosto sviluppata”, non può essere
datata agli inizi del III secolo, in cui può ravvisarsi una fase di transizione
“ma non ancora un’età in cui il modo di produzione schiavistico aveva
acquistato forza e vigore”[22], ritiene che l’autore della lex possa
essere stato Publio Aquilio; sposta ancora più avanti la datazione il Birks[23], il quale propone di fissare l’emanazione
del plebiscito intorno al 140-125 a.C., in ogni caso prima della morte di
Bruto. Collocare la lex Aquilia in un periodo così vicino a quello di Bruto non
appare, a mio avviso, condivisibile, in quanto, se anche il giurista,
utilizzando il sintagma quasi rupto non sembra estendere il significato di
rumpere sino a comprendervi il caso dell’aborto, fa rientrare all’interno della
categoria costituita dal verbo tipizzato rumpere una lesione in qualche modo
assimilabile, che a prima vista non vi rientrerebbe. Maggiormente condivisibile
appare una datazione nel III secolo, più probabilmente nella seconda metà. Si
può ricordare a tal proposito che il Capogrossi aveva richiamato l’attenzione
sulla circostanza che nel testo originario della lex Aquilia si usava la parola
erus, come ricorda Ulpiano in 18 ad ed. D. 9, 2, 11, 6 (Legis autem Aquiliae
actio ero competit, hoc est domino), indicando con erus perlomeno il
proprietario di schiavi e animali[24]. Dall’esame dell’utilizzo dei termini
erus e dominus nelle più importanti opere letterarie che vanno dalla fine del
terzo alla metà del secondo secolo, quelle di Plauto, Terenzio e Catone, si
riscontra, ha osservato il Capogrossi[25], un fenomeno di decadimento di erus e il
suo progressivo abbandono nell’uso corrente del latino: nelle commedie di
Plauto erus è utilizzato in 368 casi, sempre riferito al proprietario di uno
schiavo, di fronte ai soli 41 in cui è usato il termine dominus[26]; nelle commedie di Terenzio appare 52
volte di fronte alle 11 in cui viene usato dominus, in Catone non appare più
impiegato ed è sostituito completamente da dominus[27]. Il Capogrossi aveva ritenuto in un primo
tempo[28] che l’utilizzo di erus nella lex Aquilia
ad indicare il proprietario di schiavi e animali e in Plauto solo il
proprietario di schiavi mostrerebbe un’accezione più ampia e dunque più antica
della lex Aquilia, che dovrebbe quindi essere datata nella prima metà del III
secolo[29]; in seguito ha però osservato[30] che il collegamento di erus nella lex
Aquilia con beni diversi dallo schiavo può essere stato occasionato dalla
preminenza assunta dagli schiavi stessi[31], per cui al rapporto primario erus-servus
si sarebbero collegate altre relazioni in forma subordinata[32]. Verrebbe meno, pertanto, il motivo per
una datazione nella prima metà del III secolo, così come, in seguito alle
osservazioni della Cursi, sembrano venuti meno anche i motivi per la datazione
agli inizi del III secolo proposta dal Nörr[33] sulla base dell’idea, invero non probante[34], che il verbo occidere venga utilizzato
da Plauto in senso più ampio rispetto alla lex Aquilia. Nello Pseudolus, la cui
prima rappresentazione risale plausibilmente al 191 a.C., Plauto farebbe quasi
una parodia della lex Aquilia, ponendo sullo stesso piano l’occidere gladio e
il fames occidere, con un’estensione più ampia rispetto all’interpretazione
aquiliana, che originariamente contrapponeva occidere (causalità diretta) e causam
mortis praestare (causalità indiretta)[35]. Dall’utilizzo in Plauto dell’espressione
fames occidere si ricaverebbe, per il Nörr, il superamento ermeneutico del
primo valore legale del verbo occidere
· Pseud.
349: Eho, Pseudole, ei, gladium adfer. Quid opus<t> gladio? Qui hunc occidam atque me. Quin tu te<d>
occidis potius? nam hunc fames iam occiderit
Nella commedia
il giovane Calidoro, innamorato di Fenicia, schiava del lenone Ballione, per il
cui riscatto ha promesso venti mine, che però non è riuscito a trovare[36], alla notizia che il lenone ha venduto la
ragazza a un soldato macedone chiede allo schiavo Pseudolo di portargli una
spada per uccidere Ballione e se stesso, ma Pseudolo gli consiglia di uccidere
solo se stesso perchè sarà la Fame ad uccidere Ballione. Per la Cursi[37] il Nörr non coglierebbe pienamente nel
segno proponendo una costruzione speculare all’ablativo strumentale per la
locuzione fames occidit: è la Fame ad uccidere Ballione (fames occiderit, al
nominativo) ‘in un rapporto di causalità diretta’, e non Ballione a morire di
fame, ‘secondo un nesso di causalità mediata’[38]. Sarebbe proprio Plauto, contrariamente a
quanto sostenuto dal Nörr, ad offrire, invece, una testimonianza “per ritenere
distinte, almeno ancora agli inizi del II sec. a.C., le aree semantiche
dell’occidere e del causam mortis praestare”. L’osservazione della Cursi è
condivisibile, anche se sembra forse eccessivo parlare di una ‘sofisticata
costruzione plautina’: Plauto, che pur conosce e ricorda correttamente molti
istituti giuridici, sembra utilizzare a proposito degli eventi causativi di
morte verbi diversi senza attribuire loro un preciso significato tecnico: nello
Pseudolus, come visto, utilizza l’espressione fames occiderit, nell’Asinaria ne
nos moriamur fame[39], nella Persa ne enices fame[40], nella Cistellaria
exponendam ad necem per
indicare la morte che segue all’esposizione[41], ma nelle Bacchides ut necem per
l’uccisione (cruenta) minacciata dal soldato nel caso scoprisse l’amata con
l’altro uomo[42], utilizzando, dunque, necare con un
significato differente rispetto a quello di morte sine ictu[43]. Pur non essendo
possibile ricavare da questi elementi una datazione certa della lex Aquilia,
sembra preferibile, a mio avviso, una collocazione nella seconda metà o più specificamente verso la fine del
III secolo; in tal caso, il minor lasso di tempo intercorrente tra l’emanazione
della lex e l’opera di Bruto potrebbe spiegare il motivo per cui il giurista
repubblicano non attribuisse al rumpere un significato così esteso da
ricomprendervi il caso dell’aborto, mentre con Quinto Mucio, che opera
presumibilmente dopo una cinquantina d’anni, l’evoluzione giurisprudenziale
fosse, invece, giunta a vedere il rumpere come corrumpere, e dunque nell’aborto
una corruptio della cavalla. Ma se anche ritenessimo che la lex fosse stata
emanata in precedenza, all’inizio o nella prima metà del III secolo, non mi
pare esistano prove del fatto che al tempo di Bruto, fundator, come è noto,
insieme a Manilio e Scevola, del ius civile, la giurisprudenza in tema di lex
Aquilia avesse già raggiunto un elevato grado di evoluzione, come ritiene parte
della dottrina[44].
2. Per il
Cannata, che ritiene plausibile, come abbiamo visto, una datazione della lex
intorno al 210/200, il dettato originario del terzo caput avrebbe riguardato
solo la distruzione delle ceterae res, esclusi schiavi e pecudes[45]. Dal momento che nel passo di Bruto,
primo testo a noi giunto di interpretazione della lex Aquilia, si prendono in
considerazione una schiava e una pecus, cioè proprio quei beni che secondo la
tesi del Cannata sarebbero in origine esclusi dall’applicazione del terzo
caput, all’epoca di Bruto, in un lasso di tempo di soli cinquant’anni, si
sarebbe già compiuta quell’evoluzione giurisprudenziale che avrebbe portato,
per l’autore, ad ampliare l’ambito del terzo caput dalla distruzione delle
ceterae res al deterioramento di tutti i beni, compresi schiavi e pecudes. Il
Cannata ritiene che tale evoluzione potè essere compiuta solo da giuristi
“ormai convinti che con l’interpretatio si potesse costruire diritto nuovo
anche rispetto alle leggi, e capaci di farlo”, dai fundatores, e per la
precisione da Marco Giunio Bruto, ma a me pare che il giurista in D. 9, 2, 27,
22 non intenda estendere l’ambito di applicazione del terzo caput della lex
Aquilia a schiavi e pecudes, quanto piuttosto estendere la portata del verbo
rumpere, già relativo alla mulier e all’equa, al caso dell’aborto: al momento
dell’emanazione della lex, la tipicità dei verbi urere frangere rumpere doveva,
infatti, essere assoluta, ma ben presto si dovette manifestare l’esigenza di un
allargamento delle fattispecie in essi comprese, e rumpere era il verbo che
meglio si prestava a questo scopo, o dal punto di vista dell’assimilazione,
come sembra fare Bruto (quasi ruptum, è come se fosse rotto), o, in seguito, da
un punto di vista semantico (rumpere come corrumpere). Bruto in D. 9, 2, 27, 22
dà per scontato che si possa parlare di rumpere riguardo alla schiava e alla
cavalla, preoccupandosi piuttosto di
farvi rientrare anche il caso dell’aborto; se fosse stato il primo a tentare di
estendere attraverso l’interpretatio l’ambito di applicazione del terzo caput
dalla distruzione delle ceterae res al danneggiamento di tutti i beni, compresi
schiavi e pecudes, difficilmente si sarebbe espresso in tal modo.
Appare
necessario, allora, esaminare le fonti che ci sono pervenute sull’ambito di applicazione del terzo
caput della lex Aquilia, per verificare se avvalorano l’idea che schiavi e
pecudes non vi fossero ricompresi:
· Gai
3, 217-18: Capite tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum
vel eam quadrupedem quae pecudum <numero est vulneraverit, sive eam
quadrupedem quae pecudum> numero <non> est, veluti canem, aut feram
bestiam, veluti ursum leonem, vulneraverit vel occiderit, hoc capite actio
constituitur. In ceteris quoque animalibus, item in omnibus rebus quae anima
carent damnum iniuria datum hac parte vindicatur. Si quid enim ustum aut ruptum
aut fractum <fuerit>, actio hoc capite constituitur, quamquam potuerit
sola rupti appellatio in omnes istas causas sufficere; ruptum <enim
intellegitur quod quoque modo corruptum> est. Unde non solum usta [aut
rupta] aut fracta, sed etiam scissa et conlisa et effusa et quoque modo vitiata
aut perempta atque deteriora facta hoc verbo continentur. Hoc tamen capite non
quanti in eo anno, sed quanti in diebus XXX proximis ea res fuerit, damnatur is
qui damnum dederit. Ac ne plurimi quidem verbum adicitur. Et ideo quidam
putaverunt liberum esse iudici ad id tempus ex diebus XXX aestimationem
redigere, quo plurimi res fuerit, vel ad id quo minoris fuerit. Sed Sabino
placuit proinde habendum, ac si etiam hac parte plurimi verbum adiectum esset;
nam legis latorem contentum fuisse <quod prima parte eo verbo usus esset>
· Ist.
4, 3, 13-15: Capite tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum
vel eam quadrupedem quae pecudum numero est vulneraverit, sive eam quadrupedem
quae pecudum numero non est, veluti canem aut feram bestiam, vulneraverit aut
occiderit, hoc capite actio constituitur. in ceteris quoque omnibus animalibus,
item in omnibus rebus quae anima carent damnum iniuria datum hac parte
vindicatur. si quid enim ustum aut ruptum aut fractum fuerit, actio ex hoc
capite constituitur: quamquam poterit sola rupti appellatio in omnes istas
causas sufficere: ruptum enim intellegitur, quod quoquo modo corruptum est.
unde non solum usta aut fracta, sed etiam scissa et collisa et effusa et quoque
modo perempta atque deteriora facta hoc verbo continentur: denique responsum
est, si quis in alienum vinum aut oleum id immiserit, quo naturalis bonitas
vini vel olei corrumperetur, ex hac parte legis eum teneri. Illud palam est,
sicut ex primo capite ita demum quisque tenetur, si dolo aut culpa eius homo
aut quadrupes occisus occisave fuerit, ita ex hoc capite ex dolo aut culpa de
cetero damno quemque teneri. hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti
in diebus triginta proximis res fuerit, <obligatur> is qui damnum
dederit. Ac ne plurimi quidem verbum adicitur. sed Sabino <recte> placuit
perinde habendam aestimationem, ac si etiam hac parte plurimi verbum adiectum
fuisset: nam plebem Romanam, quae Aquilio tribuno rogante hanc legem tulit,
contentam fuisse, quod prima parte eo verbo usa est
· Ulp.
18 ad ed. D. 9, 2, 27, 5: Tertio autem capite ait eadem lex Aquilia: Ceterarum
rerum praeter hominem et pecudem occisos si quis alteri damnum faxit, quod
usserit fregerit ruperit iniuria, quanti ea res erit in diebus triginta
proximis, tantum aes domino dare damnas esto [46]
· Gai
3, 217, così come ricostruito nei F.I.R.A. e nelle altre moderne edizioni,
individua come oggetto del terzo caput ogni altro danno: sia il ferimento di
schiavi e pecudes, sia il ferimento e l’uccisione dei quadrupedi che non sono
pecudes, comprese le ferae bestiae, sia qualsiasi damnum iniuria datum in
ceteris omnibus animalibus nonché in omnibus rebus quae anima carent attuato
con le condotte di urere frangere rumpere. Il testo è stato, però, integrato in
base alle Istituzioni di Giustiniano; può essere per noi di interesse
esaminarlo anche così come appare nella trascrizione di Goeschen del codice
veronese[47]:
8) Capite tertio de
omni cetero damno cavet itaque si
9) quis serū ū eam qdrupedem que pecudem nu
10) mero de ūū canem
ā feram vestiam ū ursum leo
11) nem uulneraverit ū occiderit ex hoc capite ao.
12) constituit in
ceteris qq animalib item in omni
13) b rebus qua
anima carent damnum iniuria dat
14) hac parte vindicat
Dopo
l’affermazione per cui capite tertio de
omni cetero damno cavet, si parla dello schiavo e del quadrupede del numero
dei pecudes, poi del cane o della fera bestia come l’orso e il leone, e solo in seguito degli altri
animali e delle res quae anima carent.
Nel dettato che ci è pervenuto manca, però, sicuramente qualcosa perché si
parla di vulnerare e occidere anche riguardo a schiavi e pecudes, la cui uccisione era già
contemplata nel primo caput, e dunque
l’occiderit sarebbe dovuto essere
riferito solo a cani e bestie feroci e non anche agli schiavi e quadrupedi che
rientrano nel numero dei pecudes. Il problema è risolto dai
moderni editori con l’inserimento della parte che appare nelle Istituzioni di
Giustiniano, che potrebbe essere giustificato dalla circostanza che, se nel
testo era presente il termine numero
per due volte, il copiatore, per una distrazione, potrebbe aver saltato ciò che
veniva dopo il primo numero e ripreso
dopo il secondo. Sia accettando la lettura del codice veronese, sia la versione
integrata dalle Istituzioni di Giustiniano, Gaio parlerebbe, comunque, di ogni ceterum damnum. Il Cannata, che, pur
riportando in nota il testo dell’apografo dello Studemund[48], prende in considerazione solo il testo
di Gaio integrato dalle Istituzioni di Giustiniano, ritiene che l’ambito di
applicazione della lex di cui parla
Gaio, relativo ad ogni ceterum damnum,
non sia, però, quello originario, bensì il prodotto della successiva interpretatio, e che il terzo caput fosse in origine concepito per
sanzionare solo la distruzione delle cose non previste nei capi precedenti, le ceterae res di cui parla Ulpiano in D.
9, 2, 27, 5. Mentre parte della dottrina più risalente aveva, come è noto,
ritenuto una successiva inserzione ulpianea l’intera frase ceterarum rerum praeter hominem et pecudem occisos, per cui il terzo caput reciterebbe si quis
alteri damnum faxit, quod usserit fregerit ruperit iniuria, prendendo cioè
in considerazione qualsiasi danno arrecato iniuria
con le condotte di urere frangere
rumpere, il Cannata ritiene, invece, che vada espunto praeter hominem et pecudem occisos e mantenuto ceterarum rerum, da intendere in origine come ‘altre cose’ e non
‘in altri casi’. Secondo l’autore[49], inserendo il chiarimento interpretativo praeter hominem et pecudem occisos
nell’antica regola generale, Ulpiano avrebbe cambiato il senso dell’intera
frase: “le ceterae res non sono più
le altre rispetto a schiavi e pecudes,
perché la norma del primo capo, che ad essi si riferisce in modo speciale, non
concerne che una serie limitata di casi, e cioè quelli della loro uccisione,
ogni altro caso rientra nel terzo capo”. Sarebbe, dunque, Ulpiano ad aver
equivocato sul significato di ceterae res
aggiungendo praeter hominem et pecudem
occisos, ma sembra difficile che il giurista abbia potuto equivocare se,
come afferma lo stesso Cannata[50], aveva a disposizione un testo completo
della legge conforme all’originale. Da nessuno dei testi che ci sono pervenuti,
si ricava, pertanto, in modo chiaro che il terzo caput fosse in origine concepito per sanzionare solo la distruzione
delle cose non previste nei capi precedenti[51]; tale circostanza sarebbe, però, ad
avviso del Cannata, obbligata, dal momento che la pena consisterebbe sempre,
come nel primo caput, nel pagamento
del valore integrale della cosa[52], e dunque sarebbe sempre stato previsto,
in origine, che la res risultasse
perduta; la condanna in quanti in diebus
XXX proximis ea res fuerit[53] non potrebbe che riguardare casi di
distruzione. L’Autore, pur ammettendo che costituirebbe una stranezza, una
vistosa lacuna, che la lex Aquilia
non prendesse in alcun modo in considerazione i danneggiamenti a schiavi e pecudes ma solo nel primo caput la loro uccisione[54], ritiene che questo possa essere spiegato
perché tali danneggiamenti sarebbero stati già sanzionati nelle XII Tavole o
magari in leggi successive[55]. Se anche non conosciamo tutte le norme
delle XII Tavole in materia di danno, quel che sappiamo è, per l’autore,
sufficiente per stabilire che esse prevedevano non solo l’os fractum dello schiavo ma tutta una serie di ‘danneggiamenti non
distruttivi’, per i quali la pena era espressa con la locuzione noxiam sarcire, come il nocumento
arrecato da rivus aquae ductus[56], da pauperies[57] e incendio involontario[58], danneggiamenti che non appaiono, a mio
avviso, sempre non distruttivi. L’esistenza di una sanzione pre-aquiliana nelle
XII Tavole o magari in una legge successiva sarebbe confermata, per il Cannata,
da
· Liv.
22, 10, 3-5: tum donum duit populus Romanus Quiritium quod ver attulerit ex
suillo ovillo caprino bovillo grege quaeque profana erunt Iovi fieri, ex qua
die senatus populusque iusserit. Qui faciet, quando volet quaque lege volet
facito; quo modo faxit probe factum esto. Si id moritur quod fieri oportebit,
profanum esto, neque scelus esto. Si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus
esto
Si parla della lex de vere sacro vovendo del 217 a.C.,
che trattava non solo della occisio
ma anche della ruptio di pecudes oggetto di sacrificio,
escludendo, nel caso l’autore fosse insciens,
lo scelus. L’utilizzo del decemvirale
ne fraus esto e non di iniuria proverebbe, per il Cannata, che
la lex Aquilia non esisteva ancora[59]; per il Valditara le osservazioni del
Cannata circa l’assenza di un riferimento all’inuria e l’utilizzo del decemvirale ne fraus esto appaiono, peraltro, inconferenti, in quanto ciò che
rilevava non era la liceità giuridica (iure)
del comportamento dannoso, quanto la non consapevolezza (insciens). Per il Corbino[60], inoltre, il fatto che nella rogatio si prendano in considerazione
una ruptio e una occisio come possibili fatti di perdita incolpevole di animali
consacrati, “può considerarsi, con buona probabilità, circostanza che echeggia
il linguaggio legislativo”, ma non si può dire se nel senso che lo presupponga
o che lo anticipi; solo nel primo caso la circostanza diverrebbe elemento di
datazione significativo.
Per il
Valditara[61], il testo di Livio smentisce, in ogni
caso, la tesi dell’originaria estraneità al contesto aquiliano delle ipotesi di
ruptio di servi e pecudes[62]: la connessione fra rumpere e occidere è un
argomento troppo forte per non pensare che si presupponessero proprio le due
ipotesi dei due capi della lex Aquilia;
al di là della datazione della legge, da Livio si ricaverebbe indubitabilmente
che occisio e ruptio di pecudes erano
considerate due ipotesi distinte ma parallele: sarebbe stato impensabile che la
lex Aquilia ne trattasse una
soltanto, anche ammesso che fosse successiva al 217 a.C. Ma per il Cannata[63], considerando il terzo caput applicabile fin dall’inizio anche
a danneggiamenti non distruttivi di schiavi e pecudes, si sarebbe di fronte ad una stranezza ‘ben più massiccia’
rispetto a quella costituita dall’assenza di previsioni per il danneggiamento
di schiavi e animali: se nel terzo caput fosse stata stabilita un’unica sanzione “consistente nel
sorgere, in capo al colpevole, dell’obbligazione di pagare al proprietario il
valore della cosa danneggiata”, sarebbe assurdo che chi avesse solo danneggiato
il bene, ad esempio tagliato la coda ad un cane, dovesse dare al proprietario
la stessa somma che se l’avesse ucciso[64]. A prescindere dalla considerazione che
tagliare la coda al cane non sembra costituire un rumpere, in quanto nessun danno viene arrecato, se condannare al quanti ea res avesse significato
condannare al valore integrale della cosa, nel caso prospettato da Bruto si
sarebbe dovuto pagare il valore integrale della schiava o della cavalla. Il
problema è sempre stato avvertito dalla dottrina: già il Pernice[65] aveva ritenuto che sin dall’inizio
l’espressione quanti ea res fosse
interpretata nel senso che si doveva consegnare la cosa danneggiata, altrimenti
ferimento e uccisione si sarebbero posti sullo stesso piano comminandosi la
stessa pena per l’uno e per l’altro; per il Natali[66] doveva detrarsi dal maggior valore
raggiunto dall’oggetto nel mese precedente il valore più basso dell’oggetto
dopo il delitto, quando il danneggiato non avesse preferito consegnare
l’oggetto leso. Dal momento che il valore di una cavalla o una schiava praegnas è indubbiamente maggiore per
via dell’aspettativa che la gravidanza vada a buon fine, la perdita in seguito
ad un comportamento altrui del feto potrebbe, peraltro, portare, come osservava
il Pugliese[67], alla condanna del convenuto al pagamento
di una somma pari alla differenza tra il valore che la cavalla incinta avesse
avuto nell’ultimo mese anteriore al delitto e il suo valore dopo l’aborto[68]. Per il Cannata[69], la valutazione doveva essere effettuata
non come pretium corporis, ma come
quantificazione pecuniaria del danno subito dal proprietario a causa della ruptio: il valore del fetus ruptus corrisponderebbe alla
diminuzione di valore venale, che l’aborto ha cagionato, della cavalla gravida[70]. Anche per il Cannata, dunque, Bruto
avrebbe calcolato il valore da risarcire tenendo conto della perdita economica
subita dal proprietario e non del valore integrale della res.
Da ultimo, il
Valditara[71] ritiene invece che si dovesse risarcire
il maggior valore del bene negli ultimi trenta giorni, tenendo conto della
circostanza che l’actio legis Aquiliae
era un’azione penale: nell’ambito della clausola quanti ea res fuit/ fuerit non era possibile una stima del fetus, ma la perdita del partus come bene futuro rappresentava
certamente un pregiudizio economico (damnum)
per il proprietario della cosa madre: “Il riconoscimento che la schiava ovvero
la cavalla gravida erano state fisicamente danneggiate, esemplarmente evidente
in Quinto Mucio, ma chiaramente presupposto anche da Bruto, fa ritenere che l’aestimatio avesse ad oggetto l’unico
bene giuridicamente esistente, ovverosia il corpus
della serva o della cavalla”. “Nell’ambito di una aestimatio rei”, prosegue l’autore, “il valore di mercato di una
madre gravida sarebbe stato senz’altro più elevato di quello di una schiava/giumenta
comune. Era questo pertanto l’oggetto della condanna a cui sia Bruto sia Quinto
Mucio dovevano tendere: il maggior valore di una schiava/cavalla gravida”. Il
Valditara ritiene, pertanto, che anche per il terzo caput si dovesse risarcire il maggior valore del bene; la
differenza con il primo caput consisterebbe
solo nel maggior arco temporale del primo (l’anno) rispetto al terzo (trenta
giorni). Ai tempi di Bruto e Quinto Mucio il damnum non sarebbe stato valutato come perdita economica ma come
violazione dell’integrità fisica di un bene[72], in quanto quest’ultimo sarebbe il
significato più risalente. Mi pare, peraltro, che il termine damnum col significato di perdita
economica, spesso contrapposto a lucrum nel senso di guadagno, sia già
attestato in una serie di passi di Plauto. Si vedano ad esempio
· Asin.
181 ss.: Is dare volt, is se aliquid posci, nam ibi de pleno promitur; neque
ille scit quid det, quid damni faciat, 187: perdidici istaec esse vera damno
cum magmo meo
· Capt. 324 ss.: Ego virtute deum et maiorum nostrum dives sum satis. Non
ego omnino lucrum omne esse utile homini existumo: scio ego, multos iam lucrum
lutulentos homines reddidit. Est etiam ubi profecto damnum praestet facere quam
lucrum
· Cist. 106: Quamquam mi istud erit molestum triduum, et damnum dabis, faciam
· Men. 256 ss.: Ne tu hercle, opinor, nisi
domum revorteris, ubi nihil habebis, geminum dum quaeris, gemes. Nam ita est
haec hominum natio: in Epidamnieis voluptarii atque potatores maxumei; tum
sycophantae et palpatores plurumei in urbe hac habitant; tum meretrices
mulieres nusquam perhibentur blandiores gentium. Propterea huic urbei nomen Epidamno inditumst,
quia nemo ferme huc sine damno devortitur, 268: Ne mihi damnum
in Epidamno duis
· Merc.
236: ait sese illius opera atque adventu caprae flagitium et damnum fecisse hau mediocriter; dicit capram, quam
dederam servandam sibi, suai uxoris dotem ambedisse oppido
· Poen. 327 ss.: Ecquid amare videor? Damnum, quod Mercurius mimime amat. Namque edepol lucrum amare nullum amatorem addecet, 748 ss.: qui in re divina dudum dicebant mihi malum damnumque maxumum portendier: is explicavi meam rem postilla lucro
· Trinum. 1022 ss.: inter eosne homines condalium te redipisci postulas? Quorum eorum unus surrupuit currenti cursori solum. Ita me di ament, graphicum furem. Quid ego quod periit petam? Nisi etiam laborem ad damnum adponam epithecam insuper. Quin tu quod periit periisse ducis?
Il termine damnum dunque già per Plauto può
significare perdita economica; se pensiamo con il Cannata ad una datazione
della lex Aquilia nel 210/200, ma
anche in un periodo precedente, non si tratterebbe di un significato tardo, ma
con tutta probabilità del significato originario[73].
3. D’altra
parte, così come ceterarum rerum non
significa necessariamente ‘delle altre cose’, ma può significare anche ‘degli
altri casi, degli altri affari’, ea res
nel terzo caput può significare ‘that
matter’, e cioè, con il Crawford “a generic reference to the pecuniary loss;
and the pecuniary loss in turns depends on the value of the king involved and what
has been done to it”. Osserva,
inoltre, l’autore che “it is thus not certain that the 30 days follow, rather
than precede, the act damnum faxit”[74]. Occorre, infatti, tener conto del fatto che nel
passo di Ulpiano si afferma quanti ea res
erit in diebus triginta proximis, con il verbo al futuro; il Daube[75], con una tesi che ebbe un certo seguito
in dottrina in passato[76], ma che sembra oggi nuovamente condivisa
da una parte della dottrina[77], aveva ritenuto che il terzo caput della lex Aquilia con quanti ea
res erit in diebus triginta proximis non intendesse riferirsi al valore del
bene nei trenta giorni passati, ma al danno, cioè alla perdita economica
sofferta dal proprietario, nei trenta giorni seguenti[78]. Lo stesso Ulpiano usa però il fuit in
· 18
ad ed. D. 9, 2, 29, 8: Haec verba: quanti in triginta diebus proximis fuit,
etsi non habent plurimi, sic tamen esse accipienda constat
e Gaio il fuerit in
· Gai
3, 218: Hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti in diebus XXX
proximis ea res fuerit, damnatur is qui damnum dederit
La tesi del
Daube sembrava ormai abbandonata dalla dottrina prevalente, convinta, in
particolare dopo le osservazioni dell’Ankum[79], che la lex Aquilia usasse il
verbo al passato e che l’erit di D.
9, 2, 27, 5 fosse dovuto ad un errore del copista; anche il Cannata[80] ritiene si tratti di un errore, pur
osservando che non si può parlare, con l’Ankum, di un ‘fantasme florentin’,
perché l’erit compare nei manoscritti
della Vulgata, e dunque l’errore
della Littera Florentina poteva
essere condiviso da altri manoscritti. E’ impensabile, però, osserva l’autore,
che sia Gaio sia Ulpiano, che operavano un confronto del terzo capo col primo
per notare l’assenza nel terzo del termine plurimi,
passassero sotto silenzio la differenza fra l’erit nel terzo e il fuit
nel primo caput. Di recente la
discussione sembra, però, riaperta, in quanto, ad avviso del Corbino[81], dal dettato di Gai. 7 ad ed. prov. D. 9, 2, 2 pr. (quanti id in eo anno plurimi fuit) e Ulp. 18 ad ed. D. 9, 2, 27, 5 (quanti
ea res erit in diebus triginta proximis)
risulta che, mentre il primo capitolo considerava unicamente la distruzione
della cosa, il terzo disciplinava qualunque fatto potesse diminuirne il valore
economico[82]. Mentre dunque il damnum era per il primo capitolo coincidente con il valore del
bene, poteva per il terzo coincidervi se la cosa fosse risultata distrutta, ma
anche non coincidere quando fosse solo diminuita nel valore economico, come nel
caso di ferimento o mutilazione dello schiavo o dell’animale. L’idea che la
sanzione inglobasse l’intero valore della cosa non può per il Corbino essere
accolta, come dimostrato da Ulp. 50 ad
Sab. D. 9, 2, 46: Si vulnerato servo
lege Aquilia actum sit, postea mortuo ex eo vulnere agi lege Aquilia nihilo
minus potest e Iul. 86 dig. D. 9,
2, 47: Sed si priore iudicio aestimatione
facta, postea mortuo servo, de occiso agere dominus instituerit, exceptione
doli mali opposita compelletur, ut ex utroque iudicio nihil amplius
consequatur, quam consequi deberet, si initio de occiso homine egisset.
Pensare che la valutazione ex capite
tertio si sia circoscritta alla intervenuta concreta diminuzione di valore
della cosa solo per effetto di un atteggiamento interpretativo successivo, come
ritiene il Cannata, è escluso, per il Corbino, dal dettato normativo dei due
capi, che differisce non solo per l’id e
l’ea res, ma anche per l’uso dei due
diversi tempi verbali nell’indicazione di ciò che dovrà essere valutato: nel
primo caput qualcosa di non più
esistente, sicchè la determinazione del valore monetario non potrà che essere
riferita al passato (fuit), nel terzo
qualcosa che può invece essere ancora esistente. Anche per il Brutti[83] l’idea del Cannata che ai sensi del terzo
caput - a suo avviso relativo a
qualunque fatto potesse diminuire il valore economico della res - il danneggiato ottenesse una
sanzione che inglobava il valore della cosa è smentita dal fatto che se si era
agito tertio capite per il ferimento
di uno schiavo e poi questo moriva, si poteva agire per il primo capo, come
prova D. 9, 2, 46: l’avere agito de
vulnerato non impediva una successiva azione de mortuo. Mentre nel primo caput
il valore della condanna equivale necessariamente alla cosa nella sua
interezza - ed è credibile che la cosa perduta fosse valutata con riferimento
all’ultimo anno precedente il fatto - per quanto riguarda il terzo caput, se l’ammontare della condanna
deve corrispondere alla perdita di valore per il deterioramento causato dal
reo, allora sarà necessario valutare in concreto gli effetti lesivi del
comportamento dannoso, dopo che si sono verificati; anche il congiuntivo
perfetto fuerit di Gaio potrebbe,
d’altra parte, ben indicare una valutazione circa il danno che si sviluppa dopo
l’evento. Osserva, però, di recente il Valditara[84] che da D. 9, 2, 47 si può solo ricavare
che il valore massimo conseguibile, quando si sia agito prima ex vulnerato e poi de occiso, è quanto si sarebbe conseguito agendo subito de occiso, ammontare che poteva essere
più elevato perché la stima veniva riferita all’anno e non al mese precedente.
Per l’autore, come già si è detto, non vi sono motivazioni sufficienti per
ritenere che il terzo caput portasse
ad un oggetto della condemnatio diverso
dal primo, vale a dire che non liquidasse il valore del bene, bensì il valore della
lesione prodotta.
Se la tesi
secondo cui per il terzo caput il
danno doveva essere valutato nei trenta giorni successivi all’evento
presenterebbe senza dubbio il vantaggio di consentire di tener conto dei danni
non rilevabili al momento dell’offesa, soprattutto per quanto riguarda schiavi
e animali, non si può non porre in evidenza che appare quantomeno anomalo, come
già rilevato dal Cannata, che tale differenza fra il calcolo del primo caput e il calcolo del terzo non sia mai
stata evidenziata dai giuristi, che pure commentano spesso, come già visto, la
mancanza nel terzo caput del termine plurimi, presente nel primo. Sappiamo,
in ogni caso, che non fu questa l’interpretazione di Giustiniano: negli sch. 20
e 21 ad Bas. 60, 3, 27, in cui si richiamano le Istituzioni di Giustiniano, lo
scoliaste parla di giorni da computare retro:
· Bas.
60, 3, 27 (A VIII, 2757 Sch.): Τὸ δέ τρίτον διαλαμβάνει περὶ τῆς ἄλλης ζημίας τῆς ἔξωθεν ἀναιρέσεως δούλου καί θρέμματος καί ἀποτιμᾶται εἰς ὅσον ἦν τὸ πρᾶγμα ἐν τᾶις πλησιαζούσαις τριάκοντα ἡμέραις (V, 290 Heimb.):
Tertium autem tractat de reliquo danno
praeter occisionem servi et pecudis, et aestimatur, quanti ea res erat in
proximis triginta diebus
· sch.
20 ad Bas. 60, 3 (B VIII, 3124 Sch.): Διενήνοχε δέ, καθὸ τὸ πρῶτον περὶ ἀναιρέσεως οἰκέιτου ἢ τοῦ ἀγεληδὸν ἰθυνομένου φησί, τὸ δέ γ’. ποτέ, νῦν δέ δεῦτερον, περὶ πάσης τῆς λειπομένης φησί ζημίας, καί ὅτι ἐπί μέν τοῦ α’. Κεφαλίου ἐπί ἐνιαυτὸν ἀνακλᾶ ἐαυτὸν ὁ δικαστής, ἐπί δέ τοῦ δευτέρου <ἐπί> λ’. ἡμέρας. Ταῦτα δέ φησιν ινστιτ. Δ’. Τιτ. γ’. (V, 290 Heimb.): Differunt plane
in illo, quod primo capite agitur de servo vel pecude occisa, tertio autem
quondam, nunc vero secundo de ceteris omnibus damnis, et quod in primo capite
iudex retro ad annum respicit, in secundo ad triginta dies. Haec autem
traduntur Instit. 4. tit. 3.
· sch.
21 ad Bas. 60, 3 (B VIII, 3124 Sch.): Έν τῷ γ’. κεφ. περὶ τῶν ἄλλων πάντων ζώων ἀναιρουμένων χωρίς οἰκέτου καί τῶν ἀγεληδὸν βοσκομένων θρεμμάτων φησί· καί ει τις δέ ἢ καύσει τίποτε ἢ κλάσει ἢ διαφθείρει ἀδίκως ὅσου ἄξιον ἦν τὸ βλαβέν πρᾶγμα ἐντὸς λ’. ἡμερῶν τῶν πρό τῆς βλάβης διαδραμουσῶν, εις τοσοῦτον τῷ ἀδικηθέντι καταδικάζεται; (V, 290
Heimb.): in tertio capite agitur de
omnibus aliis animalibus occisis praeter servum et pecudem, quae gregatim
pascitur. Et si quid quis iniuria usserit, fregerit, corruperit, tanti damnatur
laeso, quanti res laesa fuit in triginta diebus a damno dato retro computandis.
Se l’uso del
verbo ἦν in Bas. 60, 3, 27
non indica necessariamente il passato, la spiegazione degli scoli 20 e 21 non
lascia adito a dubbi: ponendo in evidenza le differenze fra primo e terzo caput (anzi precisando che ora questo è
il secondo), si parla del fatto che l’iudex
per il primo retro ad annum respicit,
per il terzo ad triginta dies.
Se desta,
dunque, delle perplessità l’idea del Daube che il terzo caput, riguardante in origine solo schiavi e pecudes, stabilisse il pagamento della perdita economica sofferta
dal proprietario nei trenta giorni seguenti al danno, perplessità mi pare
nascano anche nell’accogliere l’idea che esso riguardasse, invece, solo i
danneggiamenti distruttivi alle ceterae
res e non a pecudes e schiavi. Né pare condivisibile l’idea del Cannata che per
tali danneggiamenti sarebbero rimaste in vigore le previsioni delle XII Tavole
o di norme successive; per quanto riguarda le XII Tavole, perlomeno stando alle
norme che ci sono pervenute, l’unico caso previsto è, infatti, quello dell’ossis fractio dello schiavo, a meno di
non voler intendere come ‘norma generale di danno’ quella di
· Tab.
VIII. 5 “ Rupit[ias] sarcito” [85],
lacunosa anche
con l’ausilio di
· Festo
320.24: Rupitias (in) XII significat damnum dederit
· Festo
430.20: Sarcito in XII Ser. Sulpicius ait significare ‘damnum solvito,
praestato’.
In tal senso si
è espresso di recente il Corbino[86], il quale, seguendo un’idea già formulata
dal Gotofredo[87] e poi accolta dal Natali[88], ritiene che il versetto rappresenti una
‘norma generale del risarcimento del danno’; i Romani sin da Tab. VIII.5
avrebbero sempre descritto con l’espressione rumpere una condotta qualificata dall’evento materiale che essa
causava, uno scindere corpus, una
lesione distruttiva, e perciò permanente. Con il termine rupitiae si sarebbe indicato, pur nell’esiguità delle informazioni
disponibili, la perdita legata alla distruzione fisica di un oggetto. Ma in
dottrina, come è noto, non vi è accordo né sul fatto che le XII Tavole
contenessero una norma siffatta né sull’interpretazione da darle se la si
ritiene esistente; mentre nei F.I.R.A.
viene riportata in Tab. VIII. 5, il Crawford non la riporta nella
sua ricostruzione, opportunamente secondo il Cannata[89], che ritiene difficile parlare di norma
generale di danno[90]. Pare,
effettivamente, difficile addurre come norma generale di danno, qualunque significato si ritenga di
attribuire al termine, la norma sulle rupitiae[91], per cui, accettando la tesi che il terzo caput della lex Aquilia
non prevedesse originariamente il damnum
iniuria datum a schiavi e pecudes,
tali danni, a parte l’ossis fractio, non risulterebbero sanzionati,
stando alle norme che ci sono pervenute, sino alla successiva estensione del
terzo caput in seguito all’interpretatio. Ma nelle prime testimonianze che
possediamo di interpretatio della lex Aquilia si prende in considerazione
proprio la quasi ruptio di schiavi e pecudes (D. 9, 2, 27, 22) e la ruptio di una pecus (D. 9.2.39 pr.) in caso di aborto, senza che tali beni siano,
peraltro, distrutti.
I due passi,
che vengono spesso esaminati congiuntamente dalla dottrina, presentano delle
considerevoli differenze: oltre all’utilizzo da parte di Bruto del quasi rupto, e di Quinto Mucio del rumpere, occorre rilevare che Bruto
parla di una schiava[92] e di una cavalla che in seguito a un
pugno o a un colpo espellono il feto, Quinto Mucio pone l’accento sull’attività
del proprietario del fondo volta a scacciare la cavalla, attività che sarebbe
di per sé lecita, ma cessa di esserlo nel caso in cui egli usi le percosse o
una condotta particolarmente veemente. Il caso prospettato da Quinto Mucio
configura, diversamente da quello più generale di Bruto[93], una fattispecie di pascolo abusivo in un
terreno altrui, ponendo dunque una serie di problematiche, inerenti,
presumibilmente, ai rapporti tra vicini, non presenti nel passo di Bruto; gli
animali potevano arrecare dei danni entrando nel campo altrui e il proprietario
del campo poteva scacciarli, ma se, così facendo, provocava loro una ruptio, ne
rispondeva ai sensi della lex
Aquilia[94] se
superava i limiti della causa di giustificazione. Il proprietario dell’animale,
indubbiamente, aveva il dovere di sorvegliarlo, ma il proprietario del fondo,
pur avendo il diritto di allontanarlo, doveva farlo con modalità tali da non
causargli danni, trattandolo, come afferma Pomponio nel successivo paragrafo,
come avrebbe fatto se fosse stato suo
· D.
9, 2, 39, 1: Quamvis alienum pecus in agro suo quis deprehendit, sic illud
expellere debet, quomodo si suum deprehendisset, quoniam si quid ex ea re
damnum cepit, habet proprias actiones. itaque qui pecus alienum in agro suo
deprehenderit, non iure id includit, nec agere illud aliter debet quam ut supra
diximus quasi suum: sed vel abigere debet sine damno vel admonere dominum, ut
suum recipiat [95].
4. Il proprietario del fondo dunque,
secondo Pomponio, habet proprias actiones
per i danni che l’animale può aver provocato. Vale forse la pena, prima di ritornare al
parere di Quinto Mucio, di chiederci quali siano tali azioni; sappiamo che i
danni arrecati dagli animali
potevano essere sanzionati sin dalle XII Tavole con l’actio de pauperie e con
una ‘enigmatica’[96] actio de pastu pecoris
· Ulp.
18 ad ed. D. 9, 1, 1 pr.: Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex lege
duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari id quod nocuit, id est
id animal quod noxiam commisit, aut aestimationem noxiae offerre. 4. Itaque, ut
Servius scribit, tunc haec actio locum habet, cum commota feritate nocuit quadrupes,
puta si equus calcitrosus calce percusserit, aut bos cornu petere solitus
petierit, aut mulae propter nimiam ferociam 7. Et generaliter haec actio locum habet, quotiens
contra naturam fera mota pauperiem dedit: ideoque si equus dolore concitatus
calce petierit, cessare istam actionem, sed eum, qui equum percusserit aut
vulneraverit, in factum magis quam lege Aquilia teneri, utique ideo, quia non
ipse suo corpore damnum dedit
· Ulp.
41 ad Sab. D. 19, 5, 14, 3: Si glans ex arbore tua in meum fundum cadat eamque
ego immisso pecore depascam: Aristo scribit non sibi occurrere legitimam
actionem, qua experiri possim: nam neque ex lege duodecim tabularum de pastu
pecoris (quia non in tuo pascitur) neque de pauperie neque de damni iniuriae
agi posse: in factum itaque erit agendum[97]
Nel caso cadano dei frutti dall’albero confinante nel
fondo del vicino e questi immisso
pecore depascat,
secondo Aristone non può essere concessa alcuna legitima actio: né l’actio de pastu pecoris, né
l’actio de pauperie, né
l’actio ex lege Aquilia, ma si
potrà agire in factum. La
mancata concessione dell'actio
de pastu pecoris sembra dovuta alla circostanza
che gli animali hanno mangiato i frutti caduti nel fondo del
loro dominus (quia
non in tuo pascitur) il che indica che l’actio era esperibile solo in caso di pascolo
abusivo nel fondo altrui. Per
Aristone il
proprietario dei frutti non può esperire neanche l’actio ex lege Aquilia; come è noto, cessabit igitur Aquiliae actio,
quemadmodum, si quadrupes damnum dederit [98], perché l’animale
non è capace di iniuria: nec
enim potest animal iniuria fecisse quod sensu caret[99].
Non è, inoltre, possibile esperire l’actio de pauperie[100],
altra azione antichissima prevista dalle XII Tavole[101];
Aristone non spiega il motivo, che sembrerebbe da ravvisare nella mancanza del
requisito che l’animale avesse tenuto un comportamento contra naturam[102], in
quanto tale non può essere qualificato il mangiare i frutti, e nella mancanza del requisito dello
sconfinamento spontaneo dell’animale, in quanto dall’inciso ego
immisso pecore si
ricaverebbe un comportamento doloso o colposo del proprietario del gregge, che avrebbe spinto o
almeno permesso agli animali di cibarsi delle ghiande[103].
Se nel caso
previsto in D. 9, 2 ,39 pr. Pomponio non intendeva probabilmente riferirsi
all’esperimento da parte del proprietario del fondo dell’actio de pauperie per
l’assenza del requisito del comportamento contra
naturam e dello sconfinamento spontaneo dell’animale, occorre chiedersi se intendesse, invece,
riferirsi all’actio de pastu pecoris. Tale azione sarebbe esperibile se non riteniamo la
condotta del proprietario requisito necessario per l’esperimento dell’azione[104], e se riteniamo, con il Fliniaux[105] e la dottrina prevalente, che riguardasse
non solo le pecore[106], ma più in generale il bestiame. Sembra di
questo avviso anche quella parte della dottrina, sia risalente[107], sia recente[108], che parla di actio de pastu o di actio de
pastu aggravata per il caso in cui il proprietario avesse portato il
proprio bestiame a pascolare noctu e furtim nel terreno altrui, ricordato
nelle XII Tavole secondo la testimonianza di
· Plin.
n.h. 18,3,12: Frugem quidem aratro quaesitam noctu furtim pavisse ac secuisse
XII tabulis capital erat, suspensumque Cereri necari iubebant, gravius quam in
homicidio convictum, impubem praetoris arbitratu verberari noxiamve duplionemve
decerni[109].
Se riteniamo
che l’actio de pastu fosse riferita
in generale al bestiame e non solo alle pecore, e fosse esperibile anche in
caso di comportamento spontaneo dell’animale[110], nel caso preso in esame da Quinto Mucio
il proprietario del fondo avrebbe, dunque, potuto esperire l’actio de pastu se la cavalla avesse
provocato dei danni, ma poteva essere convenuto con la lex Aquilia se, usando non solo la violenza, ma anche un agere consulto vehementius per
allontanare l’animale, gli avesse procurato una ruptio. Avrebbe, infatti, superato, secondo Quinto Mucio, i limiti
dell’esimente dell’esercizio del proprio diritto[111] non solo nel caso avesse usato le
percosse ma anche un agere consulto vehementius, perché,
percuotendo o agendo consulto
vehementius, la sua condotta lesiva non poteva essere giustificata.
5. Dal passo di
Quinto Mucio sembrerebbe, pertanto, ricavarsi non solo che il procurato aborto
costituisca una ruptio della cavalla[112], ma anche che questa ruptio possa verificarsi, nel caso dell’ agere consulto vehementius,
in assenza del requisito del damnum
corpore datum, considerato dalla dottrina prevalente in origine necessario
per la concessione dell’actio diretta
ex lege Aquilia. Il problema è stato
ampiamente dibattuto in dottrina: per l’Albanese[113] aut consulto vehementius agisse sarebbe stato
aggiunto dai Compilatori perché Quinto Mucio non potrebbe aver pensato alla
concessione di un’azione diretta indifferentemente nell’ipotesi del danno
arrecato corpore (si percussisset) e nell’ipotesi del
danno arrecato non corpore (aut consulto vehementius egisset)[114]. Mentre per altra parte della dottrina[115] non sarebbe corretto affermare che manchi
il contatto corpore, in quanto agere detto di animali più che
spaventarli per spingerli a correre via per proprio conto, designerebbe il
condurli, cioè un diretto contatto fisico di tirare, spingere, pungolare,
secondo una recente teoria [116] occorrerebbe riconsiderare la stessa
nozione di damnum corpore datum, con
la quale i giuristi non si sarebbero riferiti, come tradizionalmente ritenuto,
alla necessità di un contatto diretto e immediato tra offensore e bene offeso,
ma all’assoluta certezza della riferibilità dell’evento al comportamento, ‘che
può estrinsecarsi sia attraverso una relazione materiale e diretta tra condotta
ed evento, sia attraverso un comportamento che presenti nella sua realizzazione
elementi idonei a ricondurre con immediatezza e certezza l’evento dannoso
all’autore della condotta (consulto e
vehementius)’[117]. Mi pare non si possano, però, escludere
i sospetti di interpolazione su D. 9, 2, 39 pr. avanzati dall’Albanese, il
quale aveva ritenuto che i Compilatori, nel loro lavoro di eliminazione della
distinzione classica fra danni dati corpore e non corpore e della
connessa actio utilis, avrebbero soppresso anche nel nostro passo ogni
accenno al regime classico, ma anziché procedere, come negli altri casi, alla
sostituzione dell’actio utilis con quella in factum,
avrebbero ricompreso più sbrigativamente sotto la generica tutela della lex
Aquilia anche il caso del danno non corpore costituito
dall’allontanamento violento dell’animale, ma senza materiale contatto. Tali
sospetti appaiono avvalorati anche dal contrasto che sembra emergere tra il
passo di Quinto Mucio e il noto passo in cui Gaio afferma che viene concessa
un’actio utilis quando il danno non è
dato corpore suo, ma alio modo, includendo tra gli esempi
quello in cui iumentum tam vehementer
egerit, ut rumperetur:
· Gai
3, 219: Ceterum placuit ita demum ex ista lege actionem esse, si quis corpore
suo damnum dederit; ideoque alio modo damno dato utiles actiones dantur, veluti
si quis alienum nomine aut pecudem incluserit et fame necaverit, aut iumentum
tam vehementer egerit, ut rumperetur….
Una parte della
dottrina ritiene però che Gaio e Quinto Mucio, pur usando espressioni simili,
potrebbero non riferirsi alla stessa fattispecie [118], in quanto in Gai 3, 219 non si fa alcun
cenno all’espulsione del feto da parte di una cavalla, ma solo al
danneggiamento consistente in una ruptio
del cavallo (iumentum tam vehementer egerit, ut rumperetur) dovuta ad
un’attività che potrebbe, diversamente da quella consulto esaminata da Quinto Mucio, consistere anche semplicemente,
come ritiene lo Schipani[119], nell’aver sfiancato l’animale,
nell’averlo fatto correre così tanto da provocargli una ruptio.
Se dubbi
permangono sull’esistenza del requisito del contatto corpore nella fattispecie
dell’agere consulto vehementius prospettata da Quinto Mucio, tale requisito,
tradizionalmente inteso, potrebbe,
peraltro, essere considerato mancante anche nel caso preso in esame da Bruto,
se riteniamo, seguendo la tesi proposta dalla Bignardi, e poi accolta dal
Cannata, che egli considerasse oggetto ruptum
il feto; ipotesi che viene, però, oggi respinta con decisione sia dal Corbino
sia dal Valditara, per i quali sia Bruto sia Quinto Mucio affrontano senza
dubbio il problema dal punto di vista di una ruptio causata alla donna o alla cavalla. Appare allora, forse
opportuno riprendere in considerazione la tesi della Bignardi, la quale,
partendo dall'idea che l’oggetto ruptum per Bruto fosse il feto,
osservava che il giurista ben poteva porsi, valutando l'ipotesi dell'aborto,
nella prospettiva di considerare il feto sotto la specie di un bene futuro,
tenendo conto del noto
· Ulp. 17 ad
Sab. D. 7, 1, 68 pr.: Vetus fuit
quaestio, an partus ad fructuarium pertineret: sed Bruti sententia optinuit
fructuarium in eo locum non habere: neque enim in fructu hominis homo esse
potest. hac ratione nec usum fructum in eo fructuarius habebit. quid tamen si
fuerit etiam partus usus fructus relictus, an habeat in eo usum fructum? et cum
possit partus legari, poterit et usus fructus eius[120]
Per la Bignardi Bruto avrebbe qualificato l'evento per mezzo del verbo
tipico della legge, collegandolo direttamente al sorgere della responsabilità:
il danno, morte del feto, sarebbe direttamente riferito al comportamento, e
stabilendo con teneri quasi rupto
<fetu> (seguendo lo scolio attribuibile secondo Heimbach all’indice
di Doroteo[121]) una
correlazione diretta fra l'evento e il riconoscimento della responsabilità, si
sarebbe posto l'accento sull'esito finale al quale collegare la condotta.
Appare allora opportuno esaminare
· Bas.
60, 3, 27 (A VIII, 2758 Sch): Ὁ πλήξας δούλην ἢ φοράδα καὶ παρασκευάσας ἀμβλῶναι ὑπόκειται τῷ Ἀκουϊλίῳ (V,295 Heimb.): Is, qui percutit ancillam vel equam, atque ita efficit, ut abortum
faciat, tenetur Aquilia
e lo
· sch.
132 ad Bas. 60, 3, 27 (B VIII. 3135 Sch.): Δωροθέου. Έὰν δούλη ἢ φορβάς μου παρὰ σοῦ πληγεῖσα ἀμβλώσῃ, ἔλεγεν ὁ βροῦτος τῷ Ακουϊλίῳ σε κατέχεσθαι ὡσανεὶ φθαρέντος τοῦ εμβρύου. (V. 295 Heimb.) is, qui percutit] Dorothei. Si
ancilla vel equa mea a te percussa abortum fecerit, Brutus dicebat te Aquilia teneri,
quasi rupto foetu.
Doroteo
intende, dunque, quasi rupto come ὡσανεὶ φθαρέντος τοῦ εμβρύου. Per la Bignardi, alla luce di quanto lo stesso Bruto afferma in D. 7, 1,
68 pr., sia pure espresso a diverso proposito, il quasi, usato come il greco ὡσανεί - quindi nel senso di 'quasi' e non nel senso di 'in quanto'- potrebbe
essere dovuto alla natura peculiare del bene distrutto, bene solo potenziale:
l'eliminazione di un bene, ancora non venuto in essere, non poteva essere
indicata come un ruptum, ma come un quasi ruptum. Come evidenziava il Cannata nel suo primo lavoro[122], l’oggetto ruptum potrebbe essere la cavalla[123], ma anche, basandosi sullo scolio di
Doroteo, il feto, ‘non considerato essere umano o pecus, ma cosa
autonoma rispetto alla madre’[124]. L’autore in un primo tempo aveva
preferito la prima soluzione, ma in seguito, dopo le osservazioni della
Bignardi [125], ha cambiato parere, ritenendo che
l’oggetto ruptum non potesse essere la cavalla (o la schiava), alla
quale non sarebbe applicabile il primo caput della lex Aquilia
perchè non è stata uccisa, e neanche, secondo la sua teoria, il terzo, in
quanto non fa parte delle ceterae res e non è stata rupta, cioè
eliminata mediante ruptio, ma il feto, parte della madre e allo
stesso tempo res autonomamente individuabile. La diffusa considerazione
del feto – nel pensiero giurisprudenziale – come parte della madre, come portio viscerum esclude, invece, per il
Corbino e per il Valditara, la possibilità che si vedesse il danno nel feto
perduto; anche per il Corbino, se in discussione fosse stata la soppressione
del feto, la questione avrebbe riguardato non una ipotesi di ruptio ma un’ipotesi di occisio, in particolare una morte
‘occasionata’[126]. Non
si può, però, mancare di rilevare che l’aborto, anche posto in essere in
maniera volontaria da una donna libera, non è mai stato considerato in epoca
classica come un omicidio, in quanto il feto non è sino alla nascita un uomo[127], sia che lo riteniamo un’entità dotata di una sua autonomia anche durante
la gravidanza, un’entità già in rerum
natura, sia che lo consideriamo solo una pars matris[128].
6. L’ipotesi
che l’utilizzo da parte di Bruto del quasi
rupto possa essere dovuto alla mancanza del contatto corpore viene in qualche modo rafforzato dal fatto che lo stesso
sintagma viene utilizzato nello stesso senso all’interno dello stesso frammento
tratto dal 18° libro ad edictum, nel §24,
in cui Ulpiano riporta il parere di Viviano
· Ulp. 18 ad ed. D. 9, 2, 27, 24: Si navem venaliciarum mercium perforasset,
Aquiliae actionem esse, quasi ruperit, Vivianus scribit
Una nave che
trasporta venaliciariae merces viene
perforata; per Viviano si può concedere l’actio
Aquiliae, quasi ruperit. Si discute in dottrina se il rumpere
riguardi la nave o le merci; mentre l’Albanese[129] aveva ritenuto verosimile che
l’espressione si riferisse alle merci che, in seguito al buco fatto nella nave,
erano andate perdute, per il Musumeci[130] il danno era stato arrecato direttamente
alla nave; per l’autore Viviano potrebbe avere inteso il rumpere come
corrumpere, ma potrebbe anche averlo inteso nel senso originario, o perché
ai suoi tempi il rumpere non era ancora equiparato al corrumpere,
o perché potrebbe seguire ancora l’orientamento di quella minoranza di
giuristi che sarebbero rimasti aderenti all’interpretazione tradizionale
del rumpere aquiliano: poiché la nave era stata danneggiata, ma non
distrutta, anche Viviano avrebbe operato, come Bruto, una forzatura
interpretativa, considerando l’azione come se fosse ricompresa nel rumpere
aquiliano. Sembra, però, poco probabile che ai tempi di Viviano la
condotta di rumpere, per poter essere qualificata tale, dovesse
portare alla distruzione del bene e non solo al suo danneggiamento. In
tal senso si è espresso anche il Cannata, il quale, pur ritenendo che in
origine il terzo caput della lex Aquilia comprendesse solo i casi
in cui il bene veniva distrutto, sostiene che già ai tempi di Quinto Mucio esso
comprendesse ogni caso di danneggiamento. Più probabile, dunque, che
il problema fosse quello del danneggiamento delle merci e non della
nave, che, essendo stata perforata, era stata indubbiamente corrupta e,
in tal caso, Viviano, e a maggior ragione Ulpiano, avrebbe parlato di rumpere
e non di quasi rumpere. Se Viviano si stava occupando
dell’esperibilità della lex Aquilia relativamente al danneggiamento o
alla distruzione delle merci, come farebbe pensare la precisazione che
si tratta di una navis venaliciarum mercium, il quasi ruperit potrebbe
essere dovuto alla mancanza di un nesso diretto tra la condotta consistente
nella perforazione della nave e il danneggiamento delle merci in essa
contenute, e, quindi, alla mancanza, anche in questo caso, del contatto corpore.
Pur non potendoci in questa sede soffermare
dettagliatamente sull’esegesi dei singoli passi in cui compare il sintagma
quasi ruperit o quasi rupto, a me sembra che con esso si intenda motivare
la concessione della tutela aquiliana in casi nei quali la fattispecie non
appariva esattamente riconducibile, quale ne fosse di volta in volta la
ragione, a quella tipica del rumpere. Il Musumeci
aveva ritenuto che Ulpiano, considerando ormai pacifico il rumpere come corrumpere e
applicabile il terzo caput della lex anche ai danneggiamenti non distruttivi
arrecati a schiavi e pecudes[131], avrebbe utilizzato il quasi rupto con funzione esplicativa,
nel senso di ‘in quanto’, mentre Bruto, che difficilmente poteva equiparare il rumpere al corrumpere, essendo vissuto in un’epoca abbastanza vicina a quella
della emanazione della lex Aquilia,
avrebbe utilizzato l’espressione non nel senso di ‘in quanto’, ma nel senso di
‘come se’, fingendo che il comportamento fosse, di per sé, riconducibile al rumpere[132]. Tale opinione si presta all’obiezione che
Ulpiano - a meno che non si pensi che abbia utilizzato il quasi solo perché l’aveva trovato in
Bruto - avrebbe, allora, dovuto
utilizzare il quasi anche negli altri
casi in cui faceva riferimento al corrumpere
al posto del rumpere; dal momento che
le fonti depongono diversamente, non sembra verosimile possa essere
questo il motivo dell’utilizzo del quasi
in D. 9,2,27,22.
7. Il Corbino,
per il quale il rumpere si doveva riferire in origine
solo ai danneggiamenti distruttivi e permanenti, ritiene però che il dubbio
espresso da Bruto in D. 9, 2, 27, 22 potrebbe essere dovuto al fatto che
nell’aborto si avevano fatti lesivi che, se anche distruttivi, erano
temporanei, perché la particolare natura della cosa che le subiva, un essere
vivente, ne consentiva anche ‘il riassorbimento’[133]. Bruto non avrebbe esteso il rumpere in corrumpere, ma avrebbe riflettuto sul fatto che il legislatore,
accompagnando il verbo rumpere con i
verbi urere e frangere, avrebbe mostrato di voler dare rilevanza anche a lesioni
come quelle provocate dal fuoco o consistenti in effrazioni che non
comportavano necessariamente l’eliminazione fisica della cosa e potevano non
determinare una ‘irreparabilità materiale’ del danno causato: sarebbe rilevata
anche la perdita che si verificava quando la cosa, pur conservando esistenza,
‘mutava funzione economica’. L’aborto, che per l’autore determina lesioni
materiali come le ferite o inabilitanti come lo spossamento, non irreversibili,
e dà luogo anche, a causa della perdita del feto, ad un “deprezzamento solo
temporaneo della cosa”, causa sempre, dunque, lesioni che, a differenza di
quelle che derivano dal rumpere
(anche nella più lata accezione di corrumpere)
sono temporanee, allo stesso modo delle lesioni conseguenza di un urere o frangere che potevano non
impedire un ripristino di funzione, talora spontaneo, talora ottenuto
attraverso opportuni interventi. La
circostanza, di cui nessuno dubita, che le tre condotte di urere frangere rumpere fossero previste nel dettato originario del
terzo caput, mi pare mostri ,
peraltro, che sin dall’inizio non vi era l’intenzione di prendere in
considerazione solo i danneggiamenti distruttivi, in quanto non si rilevano
differenze tra le condotte di urere frangere e quella di rumpere circa la possibilità di
provocare un deterioramento del bene che non consista in una lesione
permanente. Inoltre la circostanza che il frangere
non provochi necessariamente danni distruttivi sembra avvalorata dal fatto che
l’ossis fractio sin dai tempi delle
XII tavole può indicare anche un danneggiamento non irreparabile; la
spiegazione del Corbino per l’utilizzo del quasi
in D. 9, 2, 27, 22 non sembra, pertanto, convincente.
Una spiegazione
diversa per il quasi ruptum era stata
addotta dal Cannata nell’analisi congiunta di D. 9, 2, 27, 22 col successivo D.
9, 2, 27, 23: et si mulum plus
iusto oneravit et aliquid membri ruperit, Aquiliae locum fore, utilizzati
da Ulpiano rispettando il diverso modo in cui erano enunciati, in funzione di
una conclusione di più vasta portata, per la quale entrambi fornirebbero
argomento. La scelta di Bruto di imperniare entrambe le soluzioni sul rumpere
sarebbe una scelta consapevole, in quanto egli identifica il membro
fratturato come ruptum, quando, secondo la terminologia delle XII
Tavole, l’avrebbe dovuto qualificare come fractum[134]: anche se la zampa del mulo,
contrariamente al feto, è una parte integrante del mulo, non ha alcuna traccia
di una propria individualità, quel che verrebbe giuridicamente in
considerazione sarebbe la ruptio della zampa, cetera res, e non la ruptio del mulo. La considerazione
della zampa come una cetera res, che
suscita forti perplessità, come già osservato dal Musumeci[135], è stata di recente accolta dalla Galeotti[136], per la quale come pars del mulo, la zampa è ‘altro’ rispetto all’animale intero, così
come il feto è una res altra rispetto
alla madre, dunque entrambi sono riconducibili alle ceterae res, le uniche, anche a suo avviso, previste nel dettato
originario del terzo caput della lex Aquilia. Il ragionamento di Bruto in
D. 9, 2, 27, 22 - 23 può essere, per l’autrice, così ricostruito: il feto è una
res altra rispetto alla madre, tanto
che la sua ruptio costituisce una
lesione di per sé rilevante, valutabile al momento dell’espulsione; giacchè
innestato nell’equa o nella mulier, tuttavia il fetus ne costituisce una pars
e come tale dovrà essere valutato, a causa della sua natura non commerciabile.
La somma da corrispondere al dominus dovrà
pertanto essere calcolata misurando l’incidenza che la sua perdita ha avuto sul
valore della serva o della pecus. Per
quanto riguarda la zampa del mulo, come pars
dello stesso, anche essa è altro rispetto all’animale intero, dunque
riconducibile alle ceterae res di cui
tratta il terzo caput; poiché l’arto
(o l’organo) leso può essere valutato economicamente solo come pars rei, in un momento successivo la
giurisprudenza avrebbe dato per acquisita la regola secondo la quale rientrava
fra i casi contemplati nel terzo caput
della legge anche il ferimento delle res
se moventes tutelate dal primo. A me pare che il caso della perdita del
feto e della rottura della zampa siano diversi, perché il feto può essere
separato dalla madre senza che questa ne venga danneggiata, mentre non altrettanto
può dirsi per la zampa del mulo, che, diversamente dal feto, è indubbiamente
una pars rei.
Conclusioni.
Alla fine di questa disamina rimangono sicuramente aperti alcuni interrogativi,
in primo luogo riguardo la previsione originaria del terzo caput della lex Aquilia. Si
è visto, infatti, che esso, secondo i testi che ci sono pervenuti, prevedeva
ogni ceterum damnum: il rumpere frangere urere sia schiavi e pecudes sia cose inanimate, mentre la
dottrina oggi maggioritaria lo ritiene limitato ai soli danneggiamenti distruttivi delle ceterae res[137]. Nessuna fonte parla, peraltro, di
un’attività interpretativa volta ad estendere il significato di rumpere come distruzione delle ceterae res al danneggiamento di schiavi
e pecudes, mentre i passi più risalenti
parlano, invece, della possibilità di allargare il significato di rumpere relativo a schiavi e pecudes per comprendervi ipotesi
originariamente non previste, come il caso dell’aborto.
Per quanto poi
riguarda l’uso in Bruto di quasi rupto
e in Quinto Mucio di rumpere (quia equam ruperat), una spiegazione potrebbe forse essere trovata nella
circostanza che per Bruto, così come
sostengono la Bignardi e il Cannata, l’oggetto ruptum non è la schiava o
la cavalla, ma il feto, che al momento della condotta concretantesi nel pugnus o nell’ictus si trovava all’interno del corpo materno, e non poteva
essere toccato materialmente, con conseguente mancanza del requisito del
contatto corpore. Per Quinto Mucio l’oggetto ruptum, come
d'altronde egli afferma espressamente, è, invece, la cavalla, con la quale il
contatto corpore si è verificato. Parte della dottrina non ritiene,
peraltro, possibile che Bruto considerasse oggetto ruptum il feto in quanto esso sarebbe sempre stato considerato solo
una pars matris; è, tuttavia,
difficile far rientrare il feto all’interno delle categorie tradizionali dei
frutti o delle partes rei. Se durante
la gestazione il feto può essere considerato una portio mulieris, nel momento in cui si separa dal corpo della madre
appare evidente che non è una pars rei,
ma, pur potendosi separare senza danneggiare la madre, non è neppure, per Bruto
– la cui opinione prevalse, come è noto, su quella di Manilio e Publio Scevola[138] - frutto, in quanto in fructu hominis
homo esse non potest. Se intendiamo in fructu hominis nel senso di
‘in ciò che viene prodotto per l’uomo’, la motivazione andrebbe riferita solo
agli esseri umani, ma se letta nel senso di ‘nel frutto della schiava’ sembra
presupporre una differenza ontologica tra il frutto e la cosa madre che lo
produce, il che dovrebbe indurre ad escludere la natura di frutto non solo nei
parti della schiava, ma anche nei parti animali[139]. Anche sul fetus pecudis, secondo parte della dottrina, sarebbe, infatti,
esistita una quaestio relativamente
alla sua spettanza al fructuarius o
al nudus dominus, e dunque alla sua
natura di frutto, quaestio che
sarebbe stata risolta solo da Sabino e Cassio, come riferisce Ulpiano in D.
7,1,68,1: Fetus tamen pecorum Sabinus et
Cassius opinati sunt ad fructuarium pertinere. Il tamen di D. 7, 1, 68, 1, insieme all’etiam di Gai. 2 rer. cott.
D. 22, 1, 28 pr.: In pecudum fructu etiam
fetus et sicut lac et pilus et lana, secondo parte della dottrina potrebbe
rappresentare un indizio dell’esistenza di perplessità anche sulla qualificazione dei nati animali come
frutti[140].
Non si può,
pertanto, escludere, se si legge l’affermazione secondo cui il partus ancillae
non è frutto perché in fructu hominis homo esse non potest nel senso che tra
frutto e cosa-madre deve esistere una differenza ontologica, che Bruto potesse
da questo punto di vista accomunare nati da schiava e nati animali[141], non considerandoli entrambi frutti. Ma
la circostanza che sia il partus ancillae sia il fetus pecudis vengono espulsi
e separati dalla madre senza che la madre ne venga danneggiata (in nessuno dei
nostri passi si accenna infatti a ferite della madre), determina problemi anche
in ordine ad un’integrale applicazione delle regole giuridiche elaborate in
tema di pars rei. Mentre è
all’interno del corpo materno, il feto ne è, però, parte, il che rende
possibile che Bruto, considerandolo l’oggetto ruptum, abbia usato il quasi in
quanto, trovandosi il feto al momento del pugnus
o ictus all’interno del corpo
materno, non si era con esso realizzato il contatto corpore.
Recebido em: 15 out. 2017.
Aceito em: 12 fev. 2018.
[1] Su cui da ultimo, A. Corbino, Lex Aquilia e procurato aborto, in Mélanges M.
Humbert, Paris 2012, 159 ss.; Antigiuridicità
e colpevolezza nella previsione del plebiscito aquiliano, in «SDHI» 75 (2009) 77 ss. Si veda
anche, dello stesso autore, Danno, lesioni patrimoniali e lex Aquilia nella
visione romana, in Filia, Scritti G. Franciosi, I, Napoli 2007, 607 ss.; Il
dettato aquiliano, tecniche legislative e pensiero giuridico nella media repubblica,
in Studi L Labruna, II, Napoli 2007, 1127 ss.; Il danno qualificato e la lex
Aquilia 2, Padova 2008; L’oggetto dell’aestimatio damni nella
prospettiva del primo e del terzo capitolo del plebiscito aquiliano, in Studi
R. Martini, I, Milano 2008, 699 ss.
[2] Parla di abortus ictu anche per la schiava
L. De Pinto, Procurato aborto nei
giuristi severiani, in «Koinonia» 37 (2013) 317 ss. L’autrice ritiene
che da D. 9, 2, 27, 22 e D. 9, 2, 9 pr. si ricavi una conferma della “mancanza,
per quell’epoca, di specifiche norme che elevassero il procurato aborto da
illecito di carattere privato a illecito di carattere pubblico”. Prendendo in
esame sia testi concernenti l’aborto della schiava e della cavalla, sia testi
concernenti l’aborto della donna libera, la De Pinto afferma che in entrambi i
casi la preoccupazione riscontrabile sarebbe quella economica; l’idea non
sembra condivisibile, dal momento che secondo la dottrina prevalente, cui
l’autrice aderisce, il divieto di aborto nel caso della donna libera sarebbe dovuto
all’esigenza di salvaguardare gli interessi del padre, interessi di natura
certo non solo economica.
[3] L’utilizzo del quasi ruptum potrebbe,
peraltro, dipendere anche dalle peculiarità del caso dell’aborto; se infatti,
come vedremo in seguito, l’oggetto della ruptio fosse il feto, anche intendendo
rumpere come corrumpere, il feto non sarebbe corruptum. Se riteniamo, comunque,
come a me pare più probabile, che Bruto non intendesse
ancora il rumpere come corrumpere, egli non sarebbe tra i veteres
di cui in D. 9, 2, 27, 13; d’altra parte Ulpiano usa l’avverbio fere, dunque
non tutti i veteres intesero rumpere in tal modo. Per D. Daube, On the Third
Chapter of the Lex Aquilia, in «LQR» 52 (1936) 253 ss., ora in Collected
Studies in Roman Law I, Frankfurt am Main 1991, 3 ss., citato da Collected
Studies, 5, il responso di Bruto in D. 9,2,27,22 e quello di Quinto Mucio in D.
9, 2, 39 pr., concernenti la causa di un aborto, mostrano che l’offesa non
compresa sotto urere e frangere rientrava nella più ampia concezione di
rumpere. Per G. Mac Cormack, Aquilian Studies, in «SDHI» 41 (1975) 43 ss., se
si deve prendere alla lettera l’affermazione di Ulpiano per cui presso fere
omnes veteres il verbo rumpere era inteso come corrumpere, se ne potrebbe
dedurre che la maggioranza dei giuristi avrebbe esteso il significato di
rumpere tanto da includervi il corrumpere, mentre altri avrebbero ristretto
l’estensione di rumpere a situazioni che dovevano essere classificate come
quasi rumpere. Secondo Mac Cormack è però possibile che Ulpiano abbia definito
corrumpere ciò che i più antichi giuristi definirono quasi rumpere, oppure
ancora è possibile che “the early jurists held that certain states of affairs
constitued rumpere and did not differentiate them in terms of quasi rumpere or
corrumpere. These
states of affairs my have been ones which a later jurist would have included
under corrumpere”. Osserva D.
Manfredini, Contributi allo studio dell’iniuria in età repubblicana, Milano
1979, 56, che se è vero che i giuristi classici attribuivano ai veteres il
significato di rumpere come corrumpere, probabilmente alludevano ai giuristi
della tarda repubblica per i quali effettivamente è provata la tendenza a
interpretare rumpere come danneggiare, tendenza non da tutti seguita (fere omnes
veteres D. 9, 2, 27, 13); ciò in ogni caso, documenterebbe, per l’autore, il
fatto che rumpere aveva un valore più ristretto rispetto a quello di
danneggiare. Se Bruto, mirando ad estendere la tutela aquiliana al caso
dell’aborto procurato alla schiava, qualifica il fatto come quasi ruptio, vuol
dire che ai suoi tempi rumpere non significava danneggiare. Per A. Bignardi,
Frangere e rumpere nel lessico normativo e nella interpretatio prudentium, in
Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle
esperienze moderne, Ricerche F. Gallo, I, Napoli 1997, 11 ss., in part. 39, è
difficile pensare che i veteres siano giunti ex abrupto all’equivalenza di
rumpere come corrumpere, ma è possibile che a tale risultato siano arrivati in
seguito ad un processo di graduale interpretazione ed elaborazione dell’ambito
di applicazione della previsione legislativa. I. Piro, Damnum corpore suo dare
rem corpore possidere, L’oggettiva riferibilità del comportamento lesivo e
della possessio nella riflessione e nel linguaggio dei giuristi romani, Napoli
2004, 23, ritiene che nella risalente testimonianza di Bruto si possa già
ravvisare traccia del processo, frutto dell’interpretatio giurisprudenziale,
che avrebbe determinato l’estensione, ad opera dei veteres, di rumpere in
corrumpere, inteso come espressivo di ogni definitiva alterazione – materiale o
funzionale – delle caratteristiche economiche della cosa. Per A. Franciosi, Il
problema delle origini del plebiscito aquilio. Una messa a punto in tema di
datazione, in Filia, Scritti G. Franciosi, II, Napoli 2007, 935 ss., in part.
949 nt. 51, l’intervento interpretativo di Bruto in D. 9, 2 ,27, 22 estende il
significato di rumpere. Da ultimo per G. Valditara, In tema di stima del danno
aquiliano, in «Index» 44 (2016) 197 ss., in part. 206, l’uso di quasi da parte
di Bruto è significativo dello sforzo di ricondurre l’aborto entro il concetto
di rumpere e quindi l’uccisione del feto ad un danneggiamento rilevante ex
capite tertio del corpo della madre: si doveva presupporre che il corpo della
madre fosse stato danneggiato attraverso una considerazione della uccisione del
feto come ruptio.
[4] Ma per F.
Schulz, Roman Legal Science, Oxford 1953, 47, in data incerta; per V. Giuffrè, La traccia di Quinto Mucio,
Napoli 1993, 18, nel 142 o 140.
[5] Si vedano A. Schiavone, Nascita della giurisprudenza, Bari 1976, 7 nt.
3; Id., Linee di storia del
pensiero giuridico romano, Torino 1994, 48; Giuffrè,
La traccia di Quinto Mucio, cit., 22 nt. 20.
[6] Secondo M.
F. Cursi, Iniuria cum damno, Antigiuridicità e colpevolezza nella storia
del danno aquiliano, Milano 2002, 165 nt. 71, non è necessario arrivare al
responso di Bruto per fissare un termine ante quem per la lex Aquilia.
[7] Datazione proposta da A. Pernice, Zur Lehre von den Sachbeschädigungen
nach römischen Recht, Weimar 1867, 11 ss.
[8] Teoph. Par. 4, 3, 15: ὁ γὰρ ῥωμαῖκὸς χυδαῖος δῆμος κατὰ τὸν καιρὸν τῆς διαστάσεως τοῦ χυδαίου δήμου καὶ τῆς συγκλήτου, τοῦ Aquiliu [δήμαρχος δὲ…οὖτος] τὸν παρόντα νόμον τεθέντος, ἠρκέσθε τᾡ plurimi ῥήματι ἐν τᾡ πρώτῳ κειμένῳ κεφαλαιῳ (plebs enim romana, cum tempore
dissensionis inter plebem et patres Aquilius hanc legem rogaret, contenta fuit,
quod prima parte id verbum plurimi positum esset).
[9] Per A. Biscardi, Sulla data della
lex Aquilia, in Scritti A.
Giuffré, I, Milano 1967, 77 ss., già prima della lex Hortensia le
deliberazioni dei concilia plebis potevano avere efficacia vincolante per tutto
il popolo. L’autore ritiene che l'episodio nel corso del quale Teofilo parla
dell’approvazione del plebiscito Aquilio fosse quello relativo alla rivolta del
342 a.C., il che troverebbe conferma in Gai. 4, 37, in quanto la fictio
civitatis prevista nelle ipotesi di furtum e damnum avrebbe senso solo in un
periodo in cui i peregrini non potevano essere parti nel processo romano,
pertanto prima della creazione del praetor peregrinus. Se si era avvertita la
necessità di estendere l'actio ex lege Aquilia anche agli stranieri, questa non
solo sarebbe stata applicata in epoca anteriore al 242 a.C., ma doveva essere
in vigore già da considerevole tempo. Ricorda A.
Guarino, La data della lex Aquilia, in «Labeo» 14 (1968) 120 s., ora in
Pagine, III, Napoli 1994, 262 ss., che già F.
Serrao, La iurisdictio del pretore peregrino, Milano 1954, 41 ss.,
aveva, però, osservato che le actiones ficticiae di Gai 4,37 non presuppongono
la procedura delle legis actiones ma quella per formulas; per l’autore la lex
Aquilia, nel testo a noi noto attraverso Gaio e Ulpiano, sarebbe il frutto di
una stratificazione di leggi successive, così come, in precedenza, ritenuto da V. Arangio-Ruiz, Responsabilità
contrattuale in diritto romano, Napoli 1927, 237 nt. 1, per il quale il terzo
caput potrebbe essere un complemento posteriore, rifuso dalla giurisprudenza
nella vecchia legge come in un testo unico.
[10] Per E.
Pais, Storia di Roma dalle origini all’inizio delle guerre puniche, I,
2, Torino 1899, 551 s. e ivi nt. 3, il conflitto non sarebbe tra patrizi e
plebei ma tra popolo e Senato e potrebbe riguardare una delle sommosse dell’età
graccana.
[11] A. Bignardi, Theoph. Par. 4.3.15, ancora sulla data
della lex Aquilia, in «AUFE» III (1989), 1 ss.
[12] Osserva G.
Valditara, Damnum iniuria datum, in Derecho romano de obligaciones.
Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid 1994, 825 ss.; Damnum
iniuria datum2, Torino 2005, 7, che Teofilo propone una spiegazione
storica e non di tecnica legislativa. Per F.
La Rosa, Il valore originario di iniuria nella lex Aquilia, in «Labeo» 44 (1998) 366 ss., in part. 370,
l’accenno di Teofilo relativo all’emanazione della legge al tempo delle lotte
fra patrizi e plebei costituisce una notizia troppo vaga.
[13] F. Serrao, Uomini d’affari, adstipulatores, lex
Aquilia alla fine del III secolo a.C., in Studi R. Martini, III, Milano 2009,
559 ss., ritiene che un’errata interpretazione aveva indotto larga parte degli
studiosi a collegare lo scolio a quanto afferma Teofilo e ad attribuire a
Teofilo e all’ignoto scoliasta la notizia che la legge sarebbe stata approvata
su proposta del tribuno Aquilio in una fase di tensione fra plebe e Senato,
anzi durante una secessione, collocando in tal modo nella secessione non
l’origine del tribunato bensì il tribunato di Aquilio e il suo plebiscito sul
danno ingiusto. Lo scolio dell’anonimo si limitava invece, per l’autore, a precisare
ai lettori dei Basilici, promulgati ben undici secoli dopo, che cosa erano i
plebisciti proposti dai tribuni, magistratura plebea creata durante una grande
secessione della plebe dal senato, ossia durante la prima secessione del 494
a.C.
[14] Gai 3, 218: Ac ne ‘plurimi’quidem verbum
adicitur. Et ideo quidam putaverunt liberum esse iudici ad id tempus ex diebus
xxx aestimationem redigere, quo plurimi res fuerit, vel ad id, quo minoris
fuerit. Sed Sabino placuit proinde habendum, ac si etiam hac parte plurimi
verbum adiectum esset; nam legis latorem contentum fuisse, <quod prima parte
eo verbo usus esset>.
[15] I. 4, 3, 14: Ac ne plurimi quidem verbum
adicitur. sed Sabino <recte> placuit perinde habendam aestimationem, ac
si etiam hac parte plurimi verbum adiectum fuisset: nam plebem Romanam, quae
Aquilio tribuno rogante hanc legem tulit, contentam fuisse, quod prima parte eo
verbo usa est.
[16] Bignardi, Theoph. Par. 4.3.15, cit., 29 ss.
[17] Si veda G.
Valditara, Gai. 3,218 – I. 4,3,15 e l’evoluzione del concetto di
legislator, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana
alle esperienze moderne. Ricerche F. Gallo, II, Napoli 1997, 481 ss.
[18] Di recente anche G. Nicosia, Brevis Dominus, in Scritti G. Franciosi, III,
Napoli 2007, 1847 ss., ritiene escluso che sulla base di Teofilo, Par. 4, 3,
15, e dello scolio 4 a Bas. 60, 3, 1, si possa far coincidere la data del
plebiscito aquilio con quella della lex Hortensia de plebiscitis (287-286 a.
C.)
[19] T. Honoré, The Linguistic and Social Context of
the Lex Aquilia, in «The Irish Jurist» 7 (1972) 145 ss.
[20] C. A. Cannata, Sul testo originale della lex Aquilia:
premesse e ricostruzioni del primo capo, in «SDHI» 58 (1992) 194 ss, ora in
Scritti scelti di diritto romano, II, Torino 2012, 1 ss.; Id., Considerazioni sul testo e la
portata originaria del II capo della lex Aquilia, in «Index» 22 (1994) 151 ss.,
ora in Scritti, II, cit., 119 ss.; Sul testo della lex Aquilia e la sua portata
originaria in L. Vacca (a cura
di), La responsabilità civile da
atto illecito nella prospettiva storico comparatistica, Torino 1995, 25 ss.,
ora in Scritti, II, cit., 153 ss.; Il terzo capo della lex Aquilia, in «BIDR»
98-99 (1995-96) 111 ss., ora in Scritti, II, cit., 239 ss., in part. 260,
citati dagli Scritti.
[21] Serrao, Uomini d’affari, cit., 563 ss.
[22] La lex Aquilia fu probabilmente, per il
Serrao, la prima “macroscopica espressione del modo di produzione schiavistico
che prende atto dell’avvenuta reificazione degli schiavi e tratta la loro
uccisione e il loro ferimento dal punto di vista del danno che da quei fatti
illeciti deriva al loro proprietario”. Si può infatti osservare, rileva
l’autore, che mentre nelle XII Tavole la frattura dell’osso del servo è presa
in considerazione insieme alla frattura del libero, con la sola differenza
della minore pena pecuniaria (Tab. VIII.3), nella lex Aquilia il servus è preso
in considerazione insieme alle pecudes.
[23] Per P. Birks, Doing and Causing to Be Done, in A.D.E. Lewis e D.J. Ibbetson (a cura di), The Roman Law Tradition, in Cambridge 1994, 32 ss., in part. 45,
“the one secure fact which we know about the date of the lex is that it had
been passed before the jurist Brutus died, since he gave an opinion on its
scope. That means that it must have been passed by about 125 BC. Though most
scholars do place it earlier, a case every bit as strong can be made for a date
after the third Punic war, late in the 140 s.” Per G.I. Luzzatto,
s.v. Colpa penale (diritto romano), in «ED», VII, Milano 1960, 614 ss.; G. Crifò, s.v. Danno (Storia), in «ED»,
XI, Milano 1962, 615 ss., la lex Aquilia sarebbe da collocare in data anteriore
al 130 a.C.
[24] In D. 9, 2, 27, 5, in cui per la dottrina
dominante Ulpiano riporta le parole del terzo caput (vedi infra), utilizza
dominus: tantum aes domino dare damnas esto; per parte della dottrina (v. ad
es. Valditara, Damnum2,
cit., 51), il chiarimento relativo ad erus di D. 9, 2, 11, 6 riguarderebbe solo
il commento al primo caput, per altra parte (F.
Gallo, Potestas e dominium nell’esperienza giuridica romana, in «Labeo»
16 (1970) 17 ss., in part. 42 nt. 49), dato il tenore di D. 9, 2, 11, 6, è
probabile che il termine erus fosse indicato anche nel terzo caput. Di questo
avviso, di recente, E. Tassi Scandone,
Erus…quod est dominus. Le nuove prospettive di indagine terminologica. Un primo
bilancio, in «BIDR» 109 (2015) 141 ss.
[25] L. Capogrossi
Colognesi, La struttura della
proprietà e la formazione dei iura praediorum nell’età repubblicana, I, Milano
1969, 414 ss.; Id., Il campo
semantico della schiavitù nella cultura latina del terzo e del secondo secolo
a.C., in Studi Storici, XIX, 1978, 721.
[26] per 19 volte a indicare il proprietario di
un bene diverso dallo schiavo: Asin. 2: quae quidem mihi atque vobis res vertat
bene gregique huic et domino atque conductoribus, Capt. 809: eorum si
quoiusquam scrofam in publico conspexero, ex ipsis
dominis meis pugnis exculcabo furfures, 822: et petronem et dominum reddam
mortales miserrumos; Cas.
722: ita quoquo adveniunt, ubi ubi sunt, duplici damno dominos multant; Mil.
glor. 729: quae inprobast, pro mercis vitio dominum pretio pauperet; Most. 108:
tempestas venit, confringit tegulas imbricesque: ibi dominus indiligens reddere
alias nevolt, 661: sed nomen domini quaero quid siet, 686: aedium dominus
foras; Poen. 535: quod tu invitus numquam reddas domino, de quoio ederis? Pseud. 1140: aedium dominum lenonem Ballionem
quaerito, 1186: quid mercedis petasus hodie domino demeret? Quid, domino? quid
somniatis? Mea quidem haec habeo omnia, meo peculio empta; Rud. 956: furtum ego
vidi qui faciebat: noram dominum id quoi fiebat, 958a: nunc mihi si vis dare
dimidium, indicium domino non faciam, 961a: nam, nisi dat, domino dicundum
censeo, 965: et qui invenit hominem novi, et dominus qui nunc est scio, 969:
non ferat, si dominus veniat? dominus huic, ne frustra sis, nisi ego nemo
natust, hunc qui cepi in venatu meo, 1021: si veniat nunc dominus qouiust, ego
qui inspectavi procul te hunc habere, fur sum quam tu? Trin. 177: an ego alium dominum patere fieri hisce
aedibus?
[27] Per
Nicosia, Brevis dominus, cit., 1847 ss., la tecnicizzazione nel
linguaggio giuridico del termine dominus, ove opportuno con la specificazione
ex iure Quiritium, per indicare il ‘proprietario’, è da considerare frutto
dell’elaborazione giurisprudenziale volta a configurare appunto il concetto
tecnico di ‘proprietario’, e da ricollegare al sorgere e rapido diffondersi
dell’agere per formulas (e che corrisponde all’epoca in cui nei testi non
giuridici emerge la progressiva diffusione dell’impiego di dominus).
[28] Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., 414 ss.
[29] Per Cursi, Iniuria cum damno, cit., 248 ss., anche
ammettendo che il valore di erus attestato nella lex Aquilia sia più arcaico di
quello plautino, non si vede perchè, in assenza di altre fonti, dovrebbe
ritenersi che la lex Aquilia sia non solo precedente le commedie di Plauto, ma
addirittura da datare nella prima metà del III secolo.
Concorda con la Cursi di recente S. Galeotti,
Ricerche sulla nozione di damnum, I, Il danno nel diritto romano tra semantica
e interpretazione, Napoli 2015, 86, la quale ritiene che la tesi del Capogrossi
poggi ‘su un’insuperabile tautologia’, poiché domanda all’unica testimonianza
pervenuta di un (possibile) più lato impiego di erus di collocarlo nel tempo.
[30] L. Capogrossi Colognesi, La denominazione degli schiavi e dei padroni nel latino del terzo e del
secondo secolo a.C., in Actes
du colloque sur l’esclavage, Warszawa 1979, 171 ss., in part. 187 nt. 14, ora in Scritti
scelti L. Capogrossi, II, Napoli 2010, 739 ss.
[31] Per F. Beer,
Dominus e erus, in «Diritto e storia» 10 (2012) passim, la circostanza che in
Terenzio, autore collocabile pochi decenni dopo Plauto, erus ricorra
cinquantadue volte e dominus sia, invece, utilizzato in undici circostanze,
mostra come in pochi decenni il vocabolo dominus inizi a essere impiegato in
maniera molto più ampia, secondo una linea di tendenza che sembra confermata
dalle fonti coeve, ma anche immediatamente successive al periodo storico preso
in esame, dal momento che già Catone utilizza unicamente il termine dominus e
mai erus. Per il Beer il passaggio dal termine erus a dominus potrebbe essere
spiegato attraverso la lenta e progressiva evoluzione dei concetti di familia e
di persona, e con essi di una diversa impostazione dei rapporti di potere fra
pater familias e dominus. Nell’antichità romana il potere di diritto che oggi
definiamo proprietà era generalmente concepito come rapporto di natura (o di
prioritaria rilevanza) familiare poiché la vita sociale si concentrava
fortemente all’interno dell’aggregato familiare. Con il passare del tempo,
anche in coincidenza del lento affermarsi di una nuova giurisprudenza dalla
metà del II secolo a.C., si diffonderebbe l’utilizzo del termine dominus anche
per riferirsi al proprietario del servus; in questo stesso periodo si evidenzia
anche una prima tendenza a differenziare a livello terminologico anche il
potere di diritto (dominium ex iure Quiritium) dal ‘potere di fatto’ che era
assegnato dal pretore. In questa maniera sembra svolgersi, per il Beer, il lento
e progressivo passaggio verso una terminologia che sarà poi consueta e, si può
dire, consolidata certamente nel II secolo d.C.
[32] Per Franciosi,
Il problema, cit., 958 ss., dal momento che nella lex Aquilia il significato di
erus è quello di proprietario di schiavi e bestiame (e meno probabilmente anche
di altri beni), che in Plauto compare soprattutto in riferimento al padrone
dello schiavo, mentre in Terenzio come perfetto sinonimo di dominus, in
un’accezione più ampia, si dovrebbe propendere per una datazione all’incirca
nell’epoca di transizione tra l’attività di Plauto e quella di Terenzio, ossia
nel periodo a cavallo tra la fine del III e il principio del II sec. a.C. Anche
il cauto linguaggio di Bruto, il quale si esprime in termini di quasi ruptio, ove
il quasi denoterebbe una certa timidezza nell’estensione interpretativa, si
attaglia, per l’autrice, ad un’epoca relativamente prossima a quella
dell’approvazione della legge.
[33] D. Nörr, Causa Mortis: Auf den Spuren einer
Redewendung, München 1986, 127 s. e nt. 26; Id., Texte zur lex Aquilia, in Iuris professio, Festgabe für
M. Kaser, Wien, Köln, Graz 1986, 211 ss.
[34] Sembra, invece, accoglierla Valditara, Damnum2, cit., 6
e ivi nt. 32.
[35] Per Nörr nell’ambito dell’interpretazione
della lex Aquilia si sarebbe utilizzata l’espressione causam mortis praestare
per tutti quei casi di causalità mediata per i quali si doveva esperire, nel
processo formulare, un’actio in factum o utilis. Si veda ad esempio il noto
Ulp. 18 ad ed. D. 9, 2, 7, 6: Celsus autem multum interesse dicit, occiderit an
mortis causa praestiterit, ut qui mortis causa praestitit, non Aquilia, sed in
factum actione teneatur. unde adfert eum qui venenum pro medicamento dedit et
ait causam mortem praestitisse, quemadmodum eum qui furenti gladium porrexit:
nam nec hunc lege Aquilia teneri, sed in factum.
[36] O meglio ha dato un acconto di quindici
mine con l’accordo di consegnare le altre cinque entro una certa data. Si
discute, peraltro, in dottrina se Plauto intendesse riferirsi al contratto
arrale greco o al contratto consensuale
romano, dal momento che, come è noto, le commedie di Plauto sono tratte da
modelli greci, il che aveva portato, in tempi passati, buona parte della
dottrina a negare la possibilità dell’utilizzazione degli scritti del comico
per la conoscenza del diritto e della società nel suo tempo. In tal
senso, tra una bibliografia sterminata, ci limitiamo a ricordare i fondamentali
studi di E. Fraenkel, Elementi
plautini in Plauto, trad. it. F. Munari,
Firenze 1960 e di U.E. Paoli,
Comici latini e diritto attico, Milano 1962.
Diversamente la dottrina più recente, così, tra gli altri, M. V. Giangrieco Pessi, Argentarii e
trapeziti nel teatro di Plauto, in «A.G.» 201 (1981) 39 ss.; G. Falcone, Testimonianze plautine in
tema di ‘interdicta’, in «AUPA» 40 (1988) 182 ss.; C. Venturini, Plauto come fonte giuridica: osservazioni e
problemi, in AA.VV., L.
Agostiniani, P. Desideri (a cura di), Plauto
testimone della società del suo tempo, Napoli 2003, 114 ss.; Cursi, Iniuria cum damno, cit., passim;
M.V. Bramante, Patres filii e
filiae nelle commedie di Plauto. Note sul diritto nel teatro, in E. Cantarella, L. Gagliardi (a cura
di), Diritto e teatro in Grecia e a Roma, Milano 2007, 95 ss.; S. Cristaldi, Diritto e pratica della
compravendita nel tempo di Plauto, in «Index» 39 (2011) 491 ss.; L. Pellecchi, Per una lettura giuridica
della Rudens, Pavia 2012.
[37] Cursi, Iniuria cum damno,
cit., 157 ss.
[38] Per Franciosi,
Il problema, cit., 955 ss., se da un punto di vista logico la ricostruzione del
Nörr può sembrare lineare, di fatto le conclusioni cui approda la fanno
apparire tautologica: si parte dal presupposto della risalenza della legge per
tornare allo stesso concetto, attraverso l’analisi del valore di occidere nella
legge stessa e nell’interpretazione giurisprudenziale.
[39] Asin. 531: dum eius exspectamus mortem, ne
nos moriamur fame.
[40] Persa 317: Qui boves bini hic
sunt in crumena. Emitte sodes, ne enices fame; sine ire pastum.
[41] Cist. 166: dat
eam puellam ei servo exponendam ad necem.
[42] Bacch. 859 s.: Nihil est lucri quod me hodie
facere mavelim, quam illum cubantem cum illa opprimere, ambo ut necem.
[43] Il significato di necare come morte sine ictu
(Fest. s.v. Neci datus: proprie dicitur, qui sine vulnere interfectus est ut
veneno aut fame) potrebbe essere stato già utilizzato nelle XII Tavole: Cic. de
leg. 3, 8, 19: cito [necatus] tamquam ex XII tabulis insignis ad deformitatem
puer (Tab. IV.1). Per B. Albanese, Appunti su XII Tab. 4.1
(Uccisione dei neonati deformi), in Melanges Sturm, I, Liege 1999, 3 ss., vi
sono, infatti, serie possibilità che si tratti dei resti testuali del versetto
decemvirale conservato nella tradizione nota a Cicerone; la lettura cito
necatus, proposta da Pierre Dupuy, e seguita dalla maggior parte dei moderni
editori del de legibus, è, per l’autore, avvalorata dal fatto che le locuzioni
connesse a nex sono applicate specificamente all’uccisione non cruenta, e
sembra assai probabile che secondo l’antico diritto e i mores la soppressione
dei neonati deformi dovesse essere realizzata in modo non cruento.
[44] Si vedano U. Von Lubtow, Untersuchungen zur lex Aquilia de damno
iniuria dato, Berlin 1971, 17: “Unter seinen interpreten befindet sich M.
Iunius Brutus (Ulp. D. 9, 2, 27, 22) de rum die Mitte des zweiten
vorchristilichen Jahrhunderts lebte. Das Gesetz ist damals schon durch Auslegung fortgebildet; es muβ also bereits geraume Zeit gegolten habet”; Corbino, Il danno qualificato 2, cit., 62, per il quale con la
soluzione prospettata in D. 9, 2, 27, 22 Bruto presuppone come già in corso al
suo tempo un’apertura interpretativa che avrebbe portato all’affermarsi (già ad
opera dei veteres) dell’idea di attribuire al rumpere il significato
onnicomprensivo di corrumpere.
[45] Cannata, Il terzo capo, cit., 239 ss., ritiene,
infatti, seguendo una tesi proposta a suo tempo da H. F. Jolowicz, The Original Scope of the Lex
Aquilia and the Question of Damages, in «LQR» 38 (1922) 220 ss., che la lex
Aquilia prevedesse al terzo caput solo fatti dannosi che producessero la
perdita delle ceterae res. In senso contrario Valditara,
Damnum2, cit., 14 ss., per il quale accettando la tesi del Cannata
si dovrebbe concludere che nella lex Aquilia era prevista una sanzione per la
ruptio o la fractio di bestiame minuto ma non di quadrupede da gregge. A parte
l’incongruenza di una conclusione siffatta, soprattutto se rapportata con il
contenuto del capo I, non è pensabile, per l’autore, che non fosse prevista una
tutela per il danneggiamento di servi e quadrupedi o che detto illecito fosse
regolato da un regime singolare. Inoltre non si comprenderebbe, in tal caso, il
riferimento per la determinazione della pena al mese, che, se appare speculare
all’anno, presupponendo un’ipotesi di minore gravità quale il ferimento del
servo rispetto alla sua uccisione, non ha alcun senso per la gran parte dei
beni restanti, il cui valore non doveva subire normalmente variazioni
stagionali. Il periodo di trenta giorni si spiega, secondo il Valditara, per i
casi in cui il servo potesse ristabilirsi con la necessità di avere riguardo
nella valutazione al periodo stagionale in cui veniva a mancare il suo apporto.
[46] Sia damnas sia aes sono stati ritenuti
segni dell’antichità della lex Aquilia: la formula damnas esto (su cui si veda D. Liebs, Damnum, Damnare und damnas.
Zur Bedeutungsgeschichte einiger lateinischer Rechtswoerter, in «ZSS» 85 (1968)
249 ss.), ricorre in N.A. 6, 3, 36-37, in cui Gellio riferisce le parole di
Catone nell’orazione pro
Rhodiensibus del 167 a.C.: Verba
autem ex ea oratione M. Catonis haec sunt: …. Deinde paulo infra dicit: Quid
nunc? ecqua tandem lex est tam acerba, quae dicat “si quis illud facere
voluerit, mille minus dimidium familiae multa esto; si quis plus quingenta
iugera habere voluerit, tanta poena esto; si quis maiorem pecuum numerum habere
voluerit, tantum damnas esto? Troviamo damnas anche in Plauto Truc. 893: Ego
minam auri fero supplicium damnas ad amicam meam (ma secondo altra versione
damnis). Il termine aes, che non si trova più nel linguaggio legislativo a partire
dalla metà del II sec.a.C., è utilizzato da Plauto, ad esempio, in Asin. 201,
Aul. 376, 520, 526, 528, Cas. 23, Most. 63, Poen. 24, Stich. 203.
[47] Riprendo il testo di recente pubblicato da
F. Briguglio, La prima
trascrizione delle Istituzioni di Gaio. Il Codex DCCCIX (DCCCXIII) Gaii
Institutionum Libri della Biblioteca Capitolare di Verona, Bologna 2013, 134.
[48] Cannata, Il terzo capo, cit., 240 nt. 8: pecudum
numero de ūū canem ā feram vestiam ū ursum leonem vulneraverit ū occiderit.
[49] Cannata, Il terzo capo, cit., 256 s.
[50] Cannata, Sul testo originale, cit., 8.
[51] Si veda, in tal senso, per la dottrina
risalente, N. Natali, La legge
Aquilia, Roma 1896, rist. Roma 1970, 27 s.: ‘In questo capitolo si reprimeva il
danno materiale diverso dalla uccisione di un servo o quadrupes pecus e dalla
acceptilatio in fraudem creditoris; rientra perciò nel 3° capitolo della legge
qualunque danno arrecato con incendio (usserit), mediante frattura (fregerit),
ed in qualsiasi altro modo, e perciò anche la uccisione di un animale che non
appartenga alla categoria dei quadrupedi pecudi e il ferimento dello schiavo e
di qualunque animale’; per la dottrina recente Bignardi, Theoph. Par. 4.3.15, cit., 26 e ivi nt. 44, Valditara, Damnum2, cit., 14
ss.
[52] La circostanza che si dovesse pagare il
valore della res in diebus triginta proximis mostrerebbe, inoltre, che, pur
potendo l’impiego del verbo rumpere alludere
a fatti che non producevano la distruzione della cosa, ma la sua
inutilizzabilità, sarebbe stato sempre previsto, in origine, che la res risultasse perduta.
[53] Per G.
Valditara, Dall’aestimatio rei all’id quod interest nell’applicazione
della condemnatio aquiliana, in L.Vacca
(a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva
storico-comparatistica, Torino 1995, 76 ss., è riconosciuto pressochè
unanimemente che il punto di partenza è costituito dalla stima della cosa
distrutta o danneggiata, in una pura aestimatio rei (v. anche G. Valditara, Superamento
dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della
tutela ai non domini, Milano 1992, 4 s., 278 ss.).
[54] Cannata, Il terzo capo, cit., 131 nt. 89, 132 nt.
96.
[55] Per l’autore (258) il legislatore, che
possiamo identificare con il tribuno Aquilio, scelse di sanzionare solo i
danneggiamenti che eliminavano la cosa, intendendo che per i deterioramenti
restassero in vigore le norme precedenti: egli non avrebbe, in altri termini,
pensato di emanare una legge che, come si esprimerà poi Ulpiano, regolava
interamente la materia dei danneggiamenti di cose altrui abrogando l’insieme
delle norme precedenti in materia ‘appartenessero esse alle XII Tavole o a
qualunque altra legge’, ma avrebbe inteso riformare il sistema delle pene
sostituendone a quello arcaico uno più moderno ed economicamente fondato (vedi G. Cardascia, La portée primitive de la
loi Aquilia, in Daube noster, Edimburgh 1974, 60 ss., in part. 63 s.).
[56] tab. VII.8b. Paulus D. 43, 8, 5: Si per
publicum locum rivus aquae ductus privato nocebit, erit actio privato ex lege
XII tab., ut noxae domino caveatur.
[57] tab. VIII.6 Ulpianus (l. XVIII ad ed.) D.
9, 1, 1 pr.: Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex lege XII tab.
descendit; quae lex voluit aut dari id quod nocuit – aut aestimationem noxiae
offerri.
[58] tab. VIII.10 Gaius (l. 4 ad l. XII tab.)
D. 47, 9, 9: Qui aedes acervumue frumenti iuxta domum positum combusserit,
vinctus verberatus igni necari iubetur, si modo sciens prudensque id
commiserit; si vero casu, id est neglegentia, aut noxiam sarcire iubetur, aut,
si minus idoneus sit, levius castigator.
[59] Se si accoglie la datazione della lex
Aquilia proposta dal Cannata, la distanza fra le due leggi sarebbe, peraltro,
di pochi anni.
[60] Corbino, Il danno qualificato2, cit.,
59 s.
[61] Valditara, In tema, cit., 202.
[62] In tal senso già Von Lubtow, Untersuchungen, cit., 109 ss., il quale ritiene
che il terzo capo, strettamente connesso al primo, non ripetesse però la menzione
letterale di servus serva quadrupes pecus, cui esclusivamente si riferiva;
l’estensione agli altri beni sarebbe stato reso possibile proprio dal tenore
generale: si quis alteri damnum faxit.
[63] Cannata, Sul testo, cit., 25 ss., in part. 47
ss.; Id., Il terzo capo, cit.,
247 ss. L’autore nel primo articolo osservava che Bruto, nel considerare
oggetto della ruptio la cavalla, si poneva ‘già del tutto nella linea della
giurisprudenza successiva, che interpretava la locuzione ceterae res del terzo
capo come altri casi’. Replica però Bignardi,
Frangere e rumpere, cit., 43 ss., che non si può ammettere che Bruto avesse
esteso l’applicazione del terzo caput all’ipotesi delle lesioni a schiavi e
pecudes senza con ciò ammettere che tale ampliamento implicava anche, se non
prima, la comprensione nel rumpere di lesioni che non determinavano la
distruzione della cosa. Pertanto, accettando la rituale lettura di D. 9, 2, 27,
22, e la consequenziale interpretazione del successivo responso di Quinto
Mucio, si dovrebbe affermare che, in sede di interpretazione estensiva della
legge, i due giuristi di età repubblicana avrebbero operato in modo da far
rientrare nella previsione del terzo capo le lesioni a schiavi e pecudes, senza
però estendere lo stesso principio, e cioè responsabilità per il danneggiamento
che non comportasse distruzione del bene, anche alle ceterae res.
[64] F. Schulz, Classical Roman Law, Oxford 1951, 590,
ritiene non debba destare sorpresa, tenendo a mente la natura penale
dell’azione, che anche se una res avesse solo subito un deterioramento e non
fosse completamente distrutta, l’offensore dovesse pagare il pieno valore del
bene. La pena era la stessa quando un cane (che non rientrava tra i pecudes)
era ucciso e quando era solo ferito, ed è ‘primitivo’ non distinguere fra i due
casi, ma le vecchie leggi mostrerebbero caratteristiche ‘primitive’. Per D. Pugsley, On the Lex Aquilia and Culpa, in «TRD» 50 (1982) 1
ss.= American are Aliens and
Other Essays on Roman Law, Exeter 1989, 58, Gaio dà decisamente l’impressione
che la misura dei danni fosse il pieno valore dello schiavo, il suo più alto
valore nei passati trenta giorni. Poichè il diritto non era così ‘primitivo’, e
certamente non lo era quello classico, bisogna vedere, per l’autore, se ci sono
altre possibili interpretazioni.
[65] Pernice, Zur Lehre, cit., 240, ritiene che, se il
danneggiato non avesse preferito consegnare l’oggetto leso, dovesse detrarsi
dal maggior valore raggiunto dall’oggetto nel mese precedente il valore più
basso dell’oggetto dopo il delitto.
[66] Natali, La Legge Aquilia, cit., 162 ss.
[67] Pugliese, Il diritto e la vita materiale, in Atti
dei convegni lincei, 61, Roma 1984.
[68] La circostanza che il valore del parto
possa essere stimato risulta, anche se si tratta di un giurista più tardo, da
Tryph. 4 disp. D. 49, 15, 12,
18: Si natum ex Pamphila legatum tibi fuerit tuque matrem redemeris et ea apud
te pepererit, non videri te partum ex causa lucrativa habere, sed officio
arbitrioque iudicis aestimandum constituto pretio partus, perinde atque si,
quanto mater est empta, simul et partus venisset. Nel riscatto della madre il
redemptor ha pagato un prezzo più alto perché la donna era praegnas e dunque la
summa redemptionis comprende anche il prezzo del nascituro; dovrà pertanto
essere stimato il prezzo del parto. Per un esame più approfondito del passo mi
permetto di rimandare a M.V. Sanna,
Nuove ricerche in tema di redemptio ab hostibus, Cagliari 2001; Ead., Conceptus pro iam nato habetur e
nozione di frutto, in F. Botta (a
cura di), Il diritto giustinianeo fra tradizione classica e innovazione, Torino
2003, 217 ss.
[69] Cannata, Sul testo della lex Aquilia, cit., 175.
[70] Concorda col Cannata Galeotti, Ricerche, I, cit., 249 (su cui vedi di recente, M.F. Cursi, in «Iura» 64 (2016) 458 ss.
cit., 85 ss., e F.B.F. Rodrigues Rocha,
in «Interpretatio prudentium», I (2016) 2, 285 ss.), per la quale la somma da
corrispondere al dominus dovrà essere calcolata misurando l’incidenza che la
perdita del feto ha avuto sul valore della schiava o della pecus, e dunque il
pretium corporis del fetus ruptum corrisponderà alla diminuzione del valore
venale della madre, cagionato dall’aborto.
[71] Valditara, In tema, cit., 197 ss.
[72] Valditara, Sulle origini del concetto di damnum2,
Torino 1998; Id., In tema, cit.,
197 ss.
[73] J.M. Kelly,
The Meaning of the Lex Aquilia, in «LQR» 80 (1964) 73 ss., pone in evidenza che
Plauto, nato certamente non molto dopo 30 anni la lex (286 a.C.), utilizza
damnum come ‘pecuniary loss or expense’, opponendolo frequentementemente a
lucrum come profitto.
[74] M.H. Crawford,
Roman Statutes, II, London 1996, 726. Anche per Von Lubtow, Untersuchungen, cit., 25, damnum indica non il
‘Beschädigung’, ma la perdita patrimoniale, il pregiudizio economico
(‘Vermögensverlust’).
[75] Daube, On the Third Chapter, cit., 3 ss.
[76] Si vedano J.A. Iliffe, Thirty Days hath Lex Aquilia, in «RIDA» 5 (1958)
493 ss.; Kelly, The Meaning,
cit., 73 ss.; Id., Further
Reflections on the Lex Aquilia, in Studi Volterra I, Milano 1971, 235 ss. Sembra dello stesso parere relativamente
all’originaria previsione della lex Aquilia anche A. Watson, Personal Injures in the XII Tables, in «TR» 43
(1975) 213 ss., per il quale il significato di ruperit sarebbe stato esteso, in un secondo momento, sino al
danneggiamento di cose inanimate
[77] Corbino, Il danno qualificato2, cit.,
181 ss.; M. Brutti, Il diritto
privato nell’antica Roma3, Torino 2015, 534 ss. V. anche R. Zimmermann, The Law of Obligations, Cape Town-Johannesburg
1990, 968 s., per il quale ‘the period of 30 days may well have been taken over
from XII Tables; for in the olden days the condemned debtor had been granted
exactly this period of time to pay or render restitution and thus to avert the
harsh consequences of manus iniectio.This kind of regime made perfect sense
under the lex Aquilia too; before the judge could be asked to asses the
damages, a period of 30 days had to elapse; within this time-span a wound might
have healed, the debtor might have paid a sum that satisfied the other party, he
might have repaired the sedan chair that he had damaged or he might have given
his creditor a new one’
[78] Per il Daube il terzo caput avrebbe,
inoltre, preso in origine in considerazione solo il ferimento di schiavi e
animali, res semoventes, mentre in seguito sarebbe stato esteso agli oggetti
inanimati; solo in tal momento i dies triginta proximi sarebbero
stati intesi come gli ultimi 30 giorni e quindi sarebbero sorte le difficoltà
per quanto riguarda la parola mancante plurimi, che in origine non avrebbe avuto ragione d’essere,
in quanto, essendo l’intervallo dei trenta giorni successivi stabilito per
consentire al giudice di constatare l’evoluzione della lesione, il valore
massimo o minimo avrebbe avuto un’importanza relativa. Se solo
Sabino, come sembra
risultare da Gai 3, 218, avrebbe dato ‘i tocchi finali’ alla dottrina che
applica il terzo caput a qualunque danno, dal momento che Labeone concede l’azione in caso di
danneggiamento di un oggetto inanimato (Ulp. 18 ad ed. D. 9, 2, 29, 3: Item
Labeo scribit, si, cum vi ventorum navis impulsa esset in funes anchorarum
alterius et nautae funes praecidissent, si nullo alio modo nisi praecisis
funibus explicare se potuit, nullam actionem dandam. idemque Labeo et Proculus
et circa retia piscatorum, in quae navis piscatorum inciderat, aestimarunt.
plane si culpa nautarum id factum esset, lege Aquilia agendum. sed ubi damni
iniuria agitur ob retia, non piscium, qui ideo capti non sunt, fieri
aestimationem, cum incertum fuerit, an caperentur) si può ritenere, per l’autore,
che il decisivo cambiamento nello scopo del terzo caput abbia preso piede nella
seconda metà del I sec. a.C. Se, invece, si ritenesse che sin dall’inizio il
terzo caput si riferisse al valore dell’ultimo mese precedente, questo avrebbe
comportato instabilità nel modo del calcolo per alcune centinaia di anni, il
che è per il Daube massimamente improbabile. Inoltre, se si parlasse del più
alto valore della cosa danneggiata, anche il 3º caput, come il primo, sarebbe
applicabile solo a casi di distruzione completa, mentre sappiamo che fu
applicato anche a casi di distruzione parziale. Il sistema delle XII Tavole relativo al membrum
ruptum e all’os fractum doveva aver portato frequentemente, per il Daube, a
risultati ingiusti, in quanto il valore del denaro e dei beni fluttuava, perciò
la lex Aquilia avrebbe fatto in modo che, a prescindere dal tipo di ferita,
ogni danno reale dovesse essere risarcito, ma non tutte le conseguenze delle
ferite erano subito manifeste, in quanto lo schiavo ferito poteva guarire
completamente o rimanere invalido, il costo delle cure poteva essere alto o
basso. Quando la lex Aquilia introdusse la stima individuale di ogni danno,
contro la pena fissa delle XII Tavole, necessariamente intendeva prendere in
considerazione, per l’autore, non l’esatto momento del ferimento ma il
risultato finale, che non poteva essere posticipato troppo a lungo, ma doveva
essere limitato a non più di 30 giorni. Per D.
Pugsley, The Origins of the Lex Aquilia, in «LQR» 85 (1969) 50 ss.,
“chapter 3 of the lex aquilia was passed to provide a flexibile measure of
damages for personal injuries in place of the delle fixed penalties of the XII
Tables. So that if you run down me or my slave damages will be at large,
instead of being confinated to 300 and 150 asses respectively”, deterrente
insufficiente, in quanto, trattandosi di una pena fissa non distingueva fra un
milionario e un povero, tra conseguenze più o meno gravi. Per l’autore l'inserimento di plurimi sarebbe
espressione di uno sconvolgimento del carattere originario del plebiscito, e
risultato dell'influenza negativa del I capitolo. Mentre il primo caput sarebbe
nato per i casi nei quali non vi fosse possibilità di esperire l'azione di
rivendica, e avrebbe avuto alle origini natura satisfattoria, il terzo avrebbe
avuto sin dall’inizio carattere penale. Solamente agli inizi del II secolo a.C.
la prima parte della lex avrebbe acquisito carattere penale e, integrandosi con
il terzo caput, avrebbe dato origine al delitto di danneggiamento; l’opinione
di Sabino sarebbe dovuta ai problemi che sorsero quando i criteri del primo
caput furono applicati anche al terzo.
[79] C. H.
Ankum, Quanti ea res erit in diebus XXX proximis dans le troisième
chapter de la lex Aquilia: un fantasme florentin, in Melanges Ellul, Paris
1983, 171 ss., ora in Nueva Antologίa Romanίstica, Madrid Barcelona, Buenos Aires Sao
Paulo 2014, 93 ss., attribuisce l’errore dell’erit al copista della Littera
Florentina.
[80] Cannata, Il terzo caput, cit., 124.
[81] Corbino, Il danno qualificato2, cit.,
181 ss.; Id., L’oggetto
dell’aestimatio damni, cit., 699 ss.
[82] Occorre, però, osservare che mentre in
Gai. 7 ad ed. prov. D. 9, 2, 2 pr. si legge: Lege Aquilia capite primo cavetur:
ut qui servum servamve alienum alienamve quadrupedem vel pecudem iniuria
occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino damnas
esto, non riportano id, ma ea res Gai 3, 210: Damni iniuriae actio constituitur
per legem Aquiliam, cuius primo capite cautum est, <ut> si quis hominem
alienum alienamve quadrupedem quae pecudem numero sit iniuria occiderit, quanti
ea res in eo anno plurimi fuerit, tantum domino dare damnetur e I. 4, 3 pr.:
Damni iniuriae actio constituitur per legem Aquiliam. cuius primo capite cautum
est, ut si quis hominem alienum alienamve quadrupedem quae pecudum numero sit
iniuria occiderit, quanti ea res in eo anno plurimi fuit, tantum domino dare
damnetur.
[83] Brutti, Il diritto privato3, cit.,
534 ss.
[84] Valditara, In tema, cit., 197.
[85] Così, nei F.I.R.A.
[86] Corbino, Il danno qualificato 2, cit.,
59 s.
[87] J. Gothofredus, Fragmenta leges XII tabularum: sius nunc
primum tabulis restitute probationibus notis, Heidelberg 1616.
[88] Natali, La Legge Aquilia, cit., 2 ss.
[89] Osservava Cannata, Sul testo della lex Aquilia, cit., 27 ss., che
contro la tesi che vede in Tab. VIII. 5 una norma generale sul risarcimento del
danno si può osservare che in Festo (Rupitias XII significat damnum dederit)
rupitias ha forma di accusativo plurale, ma la morfologia della frase
esigerebbe il nominativo, in quanto Festo declina sempre i sostantivi che
spiega considerandoli elementi della proposizione chiarificatrice. Per quanto
riguarda la correzione di rupitias in rupit, che appare del tutto coerente,
essa rompe, però, il nesso tra i due passi di Festo, perché se la spiegazione
contenuta nel primo si riferisce non a rupitias ma a rupit, può attribuirsi
alla norma sul membrum ruptum di tab. 8. 2 invece che alla norma, qualunque
essa sia, in cui si poteva leggere il sarcito spiegato nell’altro passo
(Sarcito in XII Ser. Sulpicius ait significare ‘damnum solvito, praestato’).
Anche la spiegazione che Festo e Servio danno di sarcito può riferirsi ad altre
norme perché noxiam sarcire compare sia in tab. VIII.10 sia in tab. VIII.14.
Inoltre, poichè dall’espressione di D. 9, 4, 2, 1 si servus furtum faxit
noxiamve nocuit si ricava che con furtum faxit si sintetizzano tutte le specie
di furto previste nelle leggi decemvirali, con noxiam nocuit tutti i casi di
danno, quando Festo precisava che rupitias XII significat damnum dederit non
poteva riferirsi a una norma generale, perché l’espressione in genere usata
nelle XII Tavole era noxiam nocuit. Sussiste, poi, un argomento, per l’autore,
che rende assai improbabile che le dodici tavole contenessero una norma
generale sul risarcimento dei danni, nella quale la fattispecie sanzionata
venisse descritta con l’impiego del verbo rumpere o del suo derivato rupitiae,
il fatto che, se l’interpretazione estensiva come corrumpere (D. 9, 2, 27, 13)
del rumpere si fosse potuta basare sul corrispondente impiego del verbo rumpere
o del suo derivato rupitia nel testo decemvirale, i giuristi non avrebbero
mancato di notarlo.
[90] Altri autori hanno prospettato delle
ipotesi, che, se pur suggestive, appaiono prive di dimostrazione: così M. Voigt, Die XII Tafeln. I, Leipzig 1883,
721, che ricostruiva in tal modo il versetto: si rupitias faxit vel alienum
servum, quadrupedemve pecudem occeslit, noxiam sarcito; Von Lubtow, Untersuchungen, cit., 22 s., seguito da Valditara, Damnum 2, cit.,
4, ritiene che la norma sulle rupitiae avrebbe riguardato la ruptio del servo;
E. Polay, Iniuria types in Roman
Law, Budapest 1986, 39, propone una lettura riguardante i soli pecudes:
rupitias si quis alterius pecudi iniuria faxsit, sarcito.
[91] pur tenendo conto anche delle glosse noxia
([no]xia, ut Ser. Sulpicius Ru[fus] ait, damnum significat in XII. e sarcito
(sarcito in XII Ser. Sulpicius ait significare ‘damnum solvito, praestato’). Osservava
Daube, The Third
Chapter, cit., 3 ss., che quando è richiesto semplicemente il risarcimento, le
XII Tavole parlano di noxam sarcire, risarcire il danno. Noxa - che rimanda,
però, indubbiamente, anche all’istituto della noxae deditio, prevista nel caso
dell’actio de pauperie (D. 9, 1, 1 pr.), su cui infra, denoterebbe l’attuale
danno o la mancanza prodotta che deve essere riparata; nei casi più seri,
riparare il danno non è però abbastanza, ci deve essere in aggiunta una
punizione, un dare, una spendita da parte di chi ha offeso. Damnum decidere
significherebbe mettersi d’accordo non sull’entità della perdita, ma
sull’ammenda da pagare. Per le XII Tavole dunque noxia sarebbe il danno attuale
fatto a un oggetto o la perdita attuale prodotta portando via un oggetto,
damnum un’ammenda consistente in una restituzione multipla, poena una multa
fissa. Damnum nel senso di perdita incorsa alla vittima di un’offesa sarebbe
stato introdotto dalla lex Aquilia e solo nel terzo caput. Di recente osserva Galeotti, Ricerche, cit., 19 ss., che non si può trarre l’esistenza di una
norma generale de damno in Tab. VIII. 5 dalla combinazione delle glosse di
Festo, se si tiene conto anche della glossa noxia, in quanto, dalla
combinazione fra questa glossa e Lindsay 320: Rupitias in XII significat damnum dederit,
avremmo, secondo la Galeotti la seguente concatenazione: noxia=damnum,
rumpere=damnum dare, rumpere=(noxia=damnum), dare rumpere=noxiam committere/nocere.
Il qui rupit, sarcito avrebbe allora valore analogo a qui noxiam commisit
(nocuit), sarcito. Per l’autrice, se è plausibile che i termini noxia e damnum
fossero equivalenti ai tempi di S. Sulpicio Rufo, non è detto che ciò fosse
vero ai tempi dei decemviri, per i quali le sfere semantiche dei due termini
non sembrano sovrapporsi del tutto, tanto che i sintagmi noxiam sarcire e
damnum decidere designano una stessa situazione, ma valutata da poli opposti.
Nell’uno, infatti, noxia è la perdita subita dall’offeso, mentre damnum designa
la conseguenza cui è astretto l’offensore. Nello stesso senso, in precedenza,
C. Pelloso, Studi sul furto nell’antichità mediterranea,
Padova 2008, 199 nt. 146 e 147, per il quale noxiam facere è sinteticamente opposto a
damnum facere, che significa subire una perdita, così come, sotto il profilo etimologico,
la perifrasi noxiam factam sarcire è antitetica al decidere damnum, in cui si
farebbe menzione non di una conseguenza negativa che ricade sul soggetto
passivo dell’illecito, bensì di una conseguenza negativa, con ricadute sulla
sfera personale dell’agente, della condotta tenuta da quest’ultimo. E’ lecito
per l’autore pensare a noxia come alla conseguenza negativa da illecito (da
sanzionare) e a damnum come alla conseguenza negativa in funzione sanzionatoria
che ricade – per volontà della civitas – entro la sfera di colui che va
sanzionato.
[92] Per Bignardi,
Frangere e rumpere, cit., 46 s., il riferimento alla schiava sarebbe, però, da
eliminare per tre motivi: l’uso del termine mulier, il verbo eicere
al singolare e il fatto che nella parallela ipotesi poi considerata da Q. Mucio
in D. 9, 2, 39 pr. manchi il caso della schiava. Osservavo in un mio precedente
articolo, Quasi rupto, quasi rumpere. Dalle XII Tavole ai Digesta, in «Min.
Epig. Pap.» 2009-12 (2012) 8 ss., che il termine mulier viene adoperato in riferimento alla schiava in una
pluralità di passi (si vedano, ad esempio, D. 9, 2, 9 pr., D. 41, 3, 44, 2, D.
42, 8, 25, 5), e che eiecerit
al posto di eiecerint può
essere dovuto ai noti problemi a livello paleografico. Quanto al fatto
che il caso della schiava manchi nel passo di Q. Mucio, non mi pare si possa
parlare di ipotesi parallela: difficilmente il giurista poteva riferirsi anche
alla schiava, dal momento che prospetta l’ipotesi di una cavalla che viene
scacciata dal fondo altrui nel quale stava pascolando.
[93] Per il Corbino, il fatto che Bruto si riferisca sia alla mulier sia all’equa mostra che non muove da un caso
ma ipotizza un problema teorico. Il punto non sembra, peraltro, certo; oltre
alla circostanza che non possediamo il responso di Bruto ma solo quanto
riferisce Ulpiano, a me sembra difficile che un giurista risalente come Bruto
possa avere affrontato il caso solo come problema teorico.
[94] V. anche E. Grūber, The Roman Law of Damnage to Property, Oxford 1886.
[95] Per S. Schipani,
Responsabilità ex lege Aquilia. Criteri di imputazione e problemi della culpa,
Torino 1969, 133 ss., 306 ss., 354, mentre Q. Mucio richiede che venga superato
il limite dell’eccesso doloso, Pomponio negherebbe la legittimità di qualsiasi
eccesso. Per C.A. Cannata, Genesi
e vicende della colpa aquiliana, in «Labeo» 17 (1971) 64 ss., in part. 69, Q.
Mucio affermava che il proprietario può cacciare l’animale intruso, ma ‘col
dovuto garbo’, Pomponio indicava il perché del limite a tale comportamento, e
precisava le modalità del comportamento lecito: occorre espellere
l’animale soltanto con gli stessi mezzi che si utilizzerebbero per il proprio.
Questa considerazione è notevole, secondo l’autore, perchè è fatto riferimento
alla diligentia quam in suis sia pure con uno scopo piuttosto diverso dal
solito, in quanto normalmente la diligenza nei propri affari fornisce
un’immunità dalla responsabilità e un debitore leggermente negligente nei
propri affari non è soggetto in larga misura a una terza parte. Nel nostro caso
l’espulsione è consentita in principio perchè non è necessario tollerare il
bestiame di qualcun altro, ma nel fare questo, nell’espellerlo, deve essere
osservata la stessa diligenza che l’agricoltore usa col proprio bestiame.
[96] Così P.
Huvelin, Études sur le furtum dans le très ancient droit romain, I,
Lyon-Paris 1915, 62 nt. 4.
[97] Vedi però anche Ulp. 24 ad ed. D. 10, 4, 9, 1: Glans ex arbore tua
in fundum meum decidit, eam ego immisso
pecore depasco: qua actione possum teneri? Pomponius scribit competere actionem ad
exhibendum, si dolo pecus immisi, ut glandem comederet: nam et si glans extaret
nec patieris me tollere, ad exhibendum
teneberis, quemadmodum si materiam meam delatam in agrum suum quis auferre non
pateretur. Et placet nobis Pomponii sententia,
sive glans extet sive consumpta sit. Sed si extet, etiam interdicto de glande
legenda, ut mihi tertio quoque die legendae glandis facultas esset, uti potero,
si damni infecti cavero. Ulpiano riporta
il parere di Pomponio secondo cui nel caso i frutti siano caduti nel
fondo del vicino si può esperire l’actio ad exhibendum se l’animale è stato
immesso dolosamente nel fondo (immisso pecore) perché se ne cibasse; Ulpiano (o
forse i compilatori) approva e precisa che questo vale anche se la glans
consumpta sit. Se extat, si applicherà anche l’interdetto de glande legenda, in riferimento al diritto
del proprietario di raccogliere i frutti che da un proprio albero (confinante)
sono caduti nel fondo del vicino, recandosi in tale fondo a giorni alterni,
come leggiamo nel noto tab. VII. 10. Plinius n.h. 16, 5, 15: Cautum est – lege XII tab., ut glandem in
alienum fundum procidentem liceret colligere. (si vedano anche Ulp. 71 ad ed. D. 43,28,1: Ait praetor: Glandem, quae ex illius agro in
tuum cadat, quo minus illi tertio quoque die legere auferre liceat, vim fieri
veto. Glandis nomine omnes fructus continentur, Gai 4 ad l. XII Tab. D. 50, 16, 236, 1: Glandis appellatione omnis fructus continetur, ut Iavolenus ait,
exemplo graeci sermonis, apud quos omnes arborum species ακρόδρυα appellantur).
[98] Ulp. 18 ad ed. D. 9, 2, 5, 2.
[99] Ulp. 18 ad ed. D. 9, 1, 1, 3.
[100] Si vedano S. Monossohn, Actio de pauperie im System des römischen
Noxalrechtes, Berlin 1911; B. Biondi,
Actiones noxales, in «Annali Palermo» 10 (1925) 1 ss.; U. Robbe, L’actio de pauperie, in «RISG» 7 (1932) 327 ss.; Id., s.v. Pauperies, in «NNDI» XII,
Torino 1965, 730 ss.; J. Kerr Wylie,
Actio de pauperie. Dig. Lib. IX, tit. 1, in Studi S. Riccobono, IV, Palermo
1936, 459 ss.; G. Branca, Danno temuto e danno da cose
inanimate nel diritto romano, Padova 1937, 296 ss.; 458 ss.; E. Carrelli, Plinio Nat. Hist. 18. 3.
12 e il delitto di danneggiamento alle messi nel sistema delle XII tavole, in
«Annali Bari» n.s. 2 (1939) 3 ss.; A.
Visconti, Pauperiem facere (note ai cc. 326 e 328 dell’Editto di Rotari
e al tit. XV dell’Editto perpetuo), in Studi A. Solmi, I, Milano 1941, 155 ss.;
B. Nicholas, Liability for
Animals in Roman Law, in «Acta juridica» I (1958) 185 ss.; L. Müller, s.v. Pauperies, in
Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, suppl. 10, Stuttgart
1965, cc. 521 ss.; A. Watson, The
Original Meaning of ‘Pauperies’, in «RIDA» 17 (1970) 357 ss.; J. Macqueron, Les dommages causés par
des chiens dans la jurisprudence romaine, in Flores legum H.J. Scheltema
oblati, Groningen 1971, 133 ss.; J.
Modrzejewski, Ulpien et la nature des animaux, in Colloquio
italo-francese. La filosofia greca e il diritto romano. Roma 14-17 aprile 1973,
I, Roma 1976, 177 ss.; B.S. Jackson,
Liability for Animals in Roman Law: an Historical Sketch, in «The Cambridge Law
Journal» 37 (1978) 122 ss.; H. Ankum,
L’a. de pauperie e l’a. legis Aquiliae dans le droit romain classique, in
Studi C. Sanfilippo, II, Milano 1982, 11 ss.; J. Triantaphyllopoulos, ‘Contra naturam’, in Sodalitas.
Scritti A. Guarino, III, Napoli 1984, 1415 ss.; M.V. Giangrieco Pessi, Appunti in tema di danneggiamento
causato da animali in diritto romano dalle XII Tavole ad Ulpiano, Roma 1994; Ead., Ricerche sull’actio de pauperie. Dalle XII Tavole ad Ulpiano, Napoli 1995; M. Polojac, Actio de pauperie -
domestic and wild animals, in I. Piro
(a cura di), Règle et pratique du droit dans les réalités juridiques de
l’antiquité. Atti della 51ª
Sessione della SIHDA, Crotone-Messina 16-20 settembre 1997, 1999, 463 ss.; Ead., L’actio de pauperie ed
altri mezzi processuali nel caso di danneggiamento provocato dall’animale nel
diritto romano, in «Ius
Antiquum»
VIII (2001) 81 ss.; Ead., Actio de pauperie and Liability
caused by Animals in Roman Law, Belgrade 2003.; P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani
nel sistema giuridico romano 2,
Torino 2012, 338 ss.
[101] Il Cannata cita la pauperies come esempio
di danneggiamento non distruttivo che era rimasto in vigore dai tempi delle XII
Tavole ed avrebbe pertanto potuto giustificare il fatto che la lex Aquilia non
se ne occupasse, ma, oltre al fatto che nel caso di pauperies si tratta di
danneggiamento provocato dall’animale e non all’animale, non sembra
condivisibile che il danneggiamento da pauperies dovesse essere sempre non
distruttivo
[102] Si discute, come è noto, in dottrina se il
requisito del contra naturam fosse già previsto nelle XII Tavole, se sia stato
introdotto dalla giurisprudenza dei Severi oppure inserito dai giustinianei. P.
F. Girard, Les actions noxales,
in «NRH», 11 (1887), 409 ss., aveva ritenuto che l’actio de pauperie fosse concessa
inizialmente per qualsiasi tipo di danneggiamento, e solo in un secondo momento
fosse stata limitata ai comportamenti contra naturam. Per A.
Fliniaux, Une vieille action du droit romain: l’action de pastu, in
Mélanges Cornil, I, Paris 1926, 245 ss., in part. 256 e ivi nt. 3, “cette
distinction entre le dommage causé par l’animal secundum naturam et celui causé
contra naturam n’a pu se dégage qu’à une époque où a été reconnu le principe de
l’imputabilité, c’est-à-dire à la fin de la République”. Per
Giangrieco Pessi, Ricerche, cit.,
il contra naturam sarebbe di Ulpiano, in quanto, al periodo delle XII
tavole, data l’accentuata rilevanza delle necessità correlate alla coltivazione
della terra, è probabile che il danneggiamento da animale, comunque provocato,
dovesse comportare il diritto del soggetto offeso al risarcimento. Per Robbe, L’actio de pauperie, cit., 327
ss; Id., s.v. Pauperies, cit.,
731; Kerr Wylie, Actio de pauperie, cit., 471 ss.; Branca, Danno temuto, cit., 298 e nt.
2, si tratta di una rielaborazione giustinianea. Osserva di recente Onida, Studi sulla condizione, cit.,
361 ss., che proprio nell’età arcaica, quando la concezione del diritto
appariva fortemente intrisa di elementi sacrali e l’economia era prevalenteente
agro-pastorale, vi erano già (e a maggior ragione) tutte le premesse per la
formazione di un principio legato alla natura animalium.
[103] Fliniaux, Une vieille action, cit., 256: “Pour
cequi est d’abord de l’actio de pauperie, c’est cefait qu’elle se trouve
nécessairement écartée toutes les fois que l’animal qui a cause le dommage a
été poussé par un tiers à le commetre”;
Robbe, L’actio de pauperie, cit., 327 ss.; Id., s.v. Pauperies, cit.,730 ss.; J. Kerr Wylie, Actio de pauperie, cit., 518 s.: “The
reason for the exclusion of the actio de pauperie is that here we have a case
of non-natural pauperies and that the consumption of the fruits by the cattle
was attributable to my act of immissio alone”; Polojac, L’actio de pauperie, cit., 81 ss.; Giangrieco Pessi, Ricerche, cit., 170 ss.; E. Caiazzo, Lex Pesolania de cane, in «Index» 28 (2000) 279
ss., in part. 295 n.32, per la quale non si potrebbe esperire l’actio de
pauperie “perchè la causa dell’evento dannoso è da ricercarsi nell’azione del
proprietario del gregge che spinge le pecore a cibarsi delle ghiande”.
[104] Per la necessità della condotta del
proprietario Jackson, Liability,
cit., 127: “on the basis of such scraps of information as have been preserved,
it appears likely that only deliberate depasturation was actionable”; 137:
l’actio de pastu pecoris “depended on proof of dolus, or assuming some
liberality in the interpretation of immettere pecus, culpa”. Per
Giangrieco Pessi, Ricerche, cit., 170 ss., nell’identificazione
o meno del comportamento dell’animale come causa dell’evento dannoso sarebbe da
ritrovarsi l’elemento di differenziazione tra l’actio de pauperie e l’actio de
pastu: nell’actio de pastu sarebbe necessaria la responsabilità dell’uomo in
relazione al comportamento posto in essere dagli animali (la conduzione al
pascolo abusivo) mentre nell’actio de pauperie si tratterebbe di un
comportamento spontaneo dell’animale. Sembra ritenere necessaria l’immissio per
l’esperimento dell’actio de pastu anche Caiazzo, Lex Pesolania de cane, cit., 295 n.32, per la quale secondo Aristone non
si potrebbe esperire tale azione perché mancherebbe l’immissio del proprio
bestiame nel fondo altrui. Non
del tutto chiara l’opinione di Fliniaux,
Une vieille action, cit., 263 s., il quale, da un lato, afferma, chiedendosi
quali siano le propriae actiones cui allude Pomponio in D. 9.2.39.1 (che sta
parlando della fattispecie descritta da Quinto Mucio) , che “il s’agit de
toutes les actions qui qui peuvent être intentées à l’occasion d’un dommage
quelconque (et non pas seulement, croyons-nous, en vertu d’un dommage resultant
du pastus) que des animaux peuvent commetre, alors qu’ils se trouvent sur le
fonds d’autrui. Parmi ces actions figure au premier rang notre actio de pastu à
la quelle il convient d’ajouter l’actio de pauperie, comme ce serait le cas,
par exemple, si, sans provocation de la part de l’homme, l’animal avait blessè
un autre animal appartenant au propriétaire du fonds, l’action de la loi
Aquilia dans le caso ù l’acte dommageable de l’animal a été provoqué par
l’agissement d’un homme”, dall’altro (281), che l’actio de pastu “implique
nécessairement un acte du maître de l’animal, qui consiste dans le fait de
pousser son tropeau: immettere pecus”.
[105] Per Fliniaux,
Une vieille action, cit., 281 s., l’actio de pastu ‘s’applique à tous les
animaux qui pascuntur, c’est à dire qui se nourissent normalment en pâturant
(pecora, pecudes), par conséquent aussi bien à des quadrupèdes, comme les
bœufs, les chevaux, les ânes, les mulets, les moutons, les chèvres, les porcs,
qu’à des bipèdes, poulets, oies, etc’.
[106] In tal senso Polojac, L’actio de pauperie, cit.; v. anche Actio de pauperie: anthropomorphism
and rationalism, in «Fundamina» 18.2 (2012) 119 ss.
[107] Voigt, Die XII Tafeln, cit., 538, aveva parlato
per il passo di Plinio di un caso di pastu pecoris aggravato; per Carrelli, Plinio Nat. Hist. XVIII 3 13,
cit., 1 ss., i decemviri avrebbero isolato un caso di pastu pecoris che, per le
particolari circostanze in cui si era verificato, e per le più dannose conseguenze che
aveva avuto, appariva di molto maggiore gravità, e in luogo della pena
pecuniaria, avrebbero comminato la pena capitale.
[108] Valditara, Damnum 2, cit., 3 e ivi nt. 3; M.F. Cursi, La formazione delle
obbligazioni ex delicto, in «RIDA» 58 (2011) 143 ss.
[109] L’antichissima norma che prevede
l’uccisione di colui che furtim frugem pavisse ac secuisse, comportamento
gravissimo e sanzionato nelle XII Tavole non solo con la morte ma anche con la
consacrazione a Cerere, persegue, però, non solo la lesione di un interesse
economico ma anche l’oltraggio alla divinità, dea della terra. La fattispecie
è, indubbiamente, diversa rispetto a quella in cui gli animali
si fossero introdotti spontaneamente nel terreno altrui, caso in cui, pur non conoscendosi la sanzione
stabilita, doveva essere probabilmente applicata una pena pecuniaria. Molteplici le opinioni espresse in dottrina sulla
qualificazione della fattispecie prevista, che sembra al confine fra il furto e
il danneggiamento: mentre il
Voigt aveva ritenuto che l'attività di frugem pavisse concretasse un caso di
pastus pecoris aggravato e il frugem secuisse un caso di furto aggravato, il
Karlowa parlava in tutti e due i casi di damnum iniuria datum con le stesse caratteristiche
di quello in seguito previsto dalla lex Aquilia, per l’Huvelin, il quale
ritiene che l’informazione di Plinio possa derivare da Masurio Sabino, si
tratta indiscutibilmente di un caso di furto, come provato dall'impiego
dell'avverbio furtim, strettamente imparentato al termine furtum. Per il
Mommsen si trattava in entrambi i casi di furto aggravato, l’unico caso,
insieme al delitto di fruges excantare e segetem alienam pellicere, in cui le
XII Tavole avrebbero colpito con pena pubblica il furto. Per il Carrelli
occorre tener conto del fatto che il raccolto poteva essere mandato a male non
solo immettendo il bestiame nel campo altrui e lasciandolo pascolare - nel qual
caso, sia pure indirettamente, attraverso il nutrimento si sarebbe potuto parlare
di una vera e propria apprensione dei frutti da parte del proprietario, e
quindi di furto - ma anche quando l'animale immesso scorrazzando fra i solchi
potesse fare danni ben maggiori che limitandosi a stare anche più a lungo al
pascolo. Come nell'actio de pastu pecoris sarebbero rientrati tutti i danni che
l'animale aveva compiuto pascolando, sia per il fatto di essersi nutrito dei
frutti, sia per il fatto di essersi aggirato per il fondo producendovi danni
vari, così doveva avvenire nei confronti di questa disposizione, con la quale
si colpiva chiunque avesse volontariamente introdotto bestiame in un fondo
altrui coltivato a cereali, sia che ciò venisse fatto con l'intenzione
specifica di ricavarne un lucro, nutrendo il proprio gregge a spese del vicino,
sia che ciò venisse fatto con l'intenzione specifica di mandare a male il
raccolto. Per quanto riguarda l'ipotesi del secuisse, non è materialmente
possibile, per l'autore, determinare se i decemviri se la siano prospettata
tenendo particolarmente presente il caso di chi era andato a mietere spighe nel
fondo altrui con l'intenzione di asportarle, di chi fruges maturas subsecuit, o
il caso di chi era penetrato nel fondo altrui per mietervi un raccolto ancora
in erba, con l'intento di impedire che il raccolto giungesse a maturazione; il
delitto, sarebbe, però, in ogni caso, un delitto di danneggiamento. Pur non
potendoci soffermare su questo aspetto, sembra importante sottolineare che non
può trattarsi di due delitti distinti perché il testo parla di pavisse ac
secuisse, dunque per realizzare la fattispecie dovevano essere tenute entrambe
le condotte.
[110] In tal senso Carrelli, Plinio Nat. Hist. 18. 3. 12, cit., 4 ss.
[111] Per S. Galeotti,
Ricerche sulla nozione di damnum II, I criteri di imputazione del danno tra lex
e interpretatio prudentium, Napoli 2016, 103, si tratta, invece, di un’ipotesi
inquadrabile come ‘eccesso di difesa’.
[112] Per Valditara,
Superamento dell’aestimatio rei, cit., 271 s. e nt. 17, la discussione dei
veteres ricordata testualmente da Pomponio non si incentrava sulle modalità di
stima del danno, né tanto meno sulla considerazione del valore del puledro o
del servo perduti, ma semplicemente sul fatto se si potesse considerare rupta
la cavalla o la schiava onde applicarsi dunque il capo III della lex,
nell’ambito di quella che appare ancora una pura rei aestimatio. Mi pare però
che Quinto Mucio non discuta se possa considerarsi rupta la cavalla,
circostanza che dà per scontata, ma piuttosto in quali casi scacciarla dal
terreno possa considerarsi esercizio legittimo del proprio diritto e in quali
no.
[113] B. Albanese, Studi sulla legge Aquilia, in «AUPA» 21
(1950) 5 ss.
[114] Fliniaux, Une vieille action, cit., 261 s., ritiene
che aut consulto vehementius egisset o l’intera frase si percussisset aut consulto
vehementius egisset non si trovasse nel testo originale di Quinto Mucio e sia
stata introdotta dai Compilatori. (vedi anche per l’interpolazione S. Riccobono, Communio e comproprietà, in
Essays in legal History read before the International Congress of Historical
Studies held in London in 1913, Oxford 1913, 75 nt. 3). Per F. Schulz, Storia della giurisprudenza
romana, trad. G. Nocera, Firenze
1968, 147 nt.1 (la nota non appare nella versione inglese), Bruto sembra avere
interpretato più liberamente il rumpere del III caput, ma il passo è
evidentemente alterato, perché il giurista doveva aver proposto un’actio in
factum. Von Lubtow,
Untersuchungen, cit., 167 s., suppone che Mucio abbia concesso l’actio directa
per l’ipotesi delle percosse e l’actio utilis per il vehementer agere e che i
rielaboratori abbiano soppresso il riferimento all’actio utilis.
[115] Così Schipani,
Responsabilità, cit., 134 ss. Per P. Ziliotto,
L’imputazione del danno aquiliano. Tra iniuria e damnum corpore datum, Padova
2000, 194 ss., si concede l’actio legis Aquiliae in assenza di un rapporto di
causalità immediata fra condotta ed evento lesivo sulla base della
considerazione dell’elemento soggettivo – consulto – cioè sull’esistenza
dell’iniuria
[116] Piro, Damnum corpore suo, cit., 72 ss. Per F. La Rosa, Il valore originario di
iniuria nella lex Aquilia, in «Labeo» 44 (1998) 366 ss., in part. 375 s., il
damnum corpore datum previsto dalla lex Aquilia è un danneggiamento compiuto
con atti di violenza fisica.
[117] Con l’espressione consulto vehementius
agere si sottolineerebbe, pertanto, l’illiceità del comportamento ravvisata in
un incitamento volutamente eccessivo, sproporzionato per intensità e veemenza
rispetto al fine di espellere la cavalla dal fondo. Per Birks,
Doing, cit., 39 nt. 25, ‘D. 9.2.39 may reveal, in the word consulto, that early
on a jurist might allow intent to filter into the question whether the
defendant had done the arm’. Secondo Bignardi, Frangere e
rumpere, cit., 53 ss., anche per Quinto Mucio, come per Bruto, è solo dalla
connotazione violenta del comportamento che sorge la responsabilità. Tuttavia,
nel parere di Mucio sono presenti punti di riferimento che non coincidono con
quelli ai quali si era riallacciato Bruto, che denuncerebbero avvenuta (o in
fieri) una profonda evoluzione sia nel modo di intendere la legge, sia in
ordine al significato o alla funzione degli elementi richiesti, in particolare
per quanto riguarda il modo di intendere la funzione svolta dal termine
iniuria. La risposta di Quinto Mucio pone sullo stesso piano percutere e
consulto vehementius agere; mentre con percutere il giurista si muove
nell’alveo interpretativo che già si era colto in Bruto, con consulto
vehementius agere dimostra di operare anche e parallelamente secondo un nuovo
criterio di valutazione. Il rumpere iniuria non deriverebbe più solo dalla
natura violenta del comportamento, ma si identificherebbe in una condotta che
seppure non connotatata dalla violenza, è volutamente tenuta anche quando, in
relazione alla situazione specifica, è idonea a provocare un danno
qualificabile come ruptum. Il consulto vehementius riferito all’agere
sposterebbe sul piano dell’atteggiamento psicologico il carattere illecito che
nel percutere è insito nella condotta; l’alternativa prospettata da Quinto Mucio
conterrebbe già, seppure in nuce (ma vedi D. 9, 2, 31 pr.) quello spostamento
dell’interpretazione di iniuria dal piano oggettivo a quello soggettivo.
[118] Ritiene, invece, si tratti della stessa
fattispecie A. Corbino, Actio
directa, actio utilis e actio in factum nella disciplina giustinianea del danno
aquiliano, in Studi G. Nicosia, III, Milano 2007, 1 ss., in part. 23, per il
quale anche in D. 9, 2, 27, 22 e D. 9, 2, 39 pr. è oggetto di considerazione la
corruzione di un animale a seguito dello sforzo al quale è stato sottoposto,
che Gaio in 3, 219 comprendeva tra i casi che davano luogo all’actio utilis.
Difficilmente, pertanto, i nostri passi potrebbero essere intesi da un punto di
vista giustinianeo come riferiti ad un’azione diversa da quella utile, come
indicherebbero la presenza del quasi per Bruto e del vehementius agere per Q.
Mucio, che discutevano probabilmente in termini di semplice concessione o
diniego dell’azione diretta, che Bruto sembrerebbe avere accordato in virtù di
un’assimilazione tout court del fatto in oggetto al rumpere legislativo, e Q.
Mucio sulla base di un’assimilazione limitata all’ipotesi di un carattere
violento dell’azione. La concessione nella fattispecie di un’actio utilis
sembrerebbe la conseguenza di una mediazione successiva, poi accolta dalla
giurisprudenza in età imperiale (come sembrerebbero indicare l’allusione alla
fattispecie già nel testo gaiano iumentum tam vehementer egerit ut rumperetur –
e il conforme inquadramento che ne avrebbero poi fatto i compilatori in I. 4,
3, 16).
[119] Per Schipani,
Responsabilità, cit., 134 ss., il contrasto fra i due passi non sarebbe,
peraltro, determinante: perché in Gaio si considera un’ipotesi di rumpere costituita dallo sfiancare
l’animale, mentre il rumpere di
Quinto Mucio è in stretta connessione con il precedente costituito da D. 9, 2,
27, 22, che avrebbe operato ‘la sussunzione del fatto aborto all’interno del
concetto legislativo del rumpere’.
I due fatti sarebbero, quindi, diversi: quello considerato da Quinto Mucio non
sarebbe uguale a quello “prospettato come paradigmatico esempio di applicazione
dell’actio utilis”, a proposito
del quale, comunque, da un lato si potrebbero riaprire dubbi
sull’interpretazione dell’alio modo, dall’altro si potrebbe
osservare che il nesso materiale con la condotta, anche se questo implicasse un
contatto fisico con l’animale, sarebbe elastico ed aperto a diverse
interpretazioni. Si veda, anche, S.
Schipani, Lex Aquilia, culpa. Responsabilità, in F. Milazzo (a cura di), Illecito e pena privata in età repubblicana
(Atti del Convegno di diritto romano – Copanello 1990), Napoli 1992, 133 s.
[120] Ritiene Valditara,
In tema, cit., 204 nt. 51, che nulla abbia a che vedere con il tema in
questione D. 7, 1, 68 pr., perché si presuppone che il concepito sia
già nato. Sembra, peraltro, evidente che né nel saggio della Bignardi, come
risulta da quanto riportato in testo, né nel mio, Quasi rupto, cit., 8
ss., in part. 13, richiamato dal Valditara, si intendesse che in D. 7,
1, 68 pr. e D. 9, 2, 27, 22 si prenda in considerazione lo stesso caso. Come
mette in evidenza la Bignardi (42) D. 7, 1, 68 pr. ‘è prova che Bruto aveva ben
presenti i problemi relativi alle vicende legate alla riproduzione di persone o
animali oggetto di dominio. E anche se in questa occasione l’ipotesi
prospettata riguarda non il feto ma il già nato, ciò non di meno risulta con
sufficiente chiarezza che la prospettiva secondo la quale si muove il giurista
è quella di considerare comunque il concepito come un bene’. Bruto potrebbe
aver ritenuto il concepito
come un bene futuro, ‘un bene, in relazione al quale si dovevano
definire e determinare le aspettative giuridiche ed economiche, anche se
autonomamente solo dopo il distacco dalla madre’, usando le parole della
Bignardi.
[121] F. Brandsma, Dorotheus
and his Digest Translation, Groningen 1996, 51, non ha dubbi
sull’attribuzione dello scolio a Doroteo: per l’autore l'interpretazione data
nello scolio di Doroteo sembra, peraltro, 'inconsistent' con D. 9, 2, 39 pr.,
con quanto affermato da Mucio.
[122] Cannata, Sul
testo, cit., 25 ss.
[123] e allora l'espressione quasi rupto, maschile o neutra,
andrebbe intesa come generale e corrispondente a 'in quanto vi è stato un rumpere', realizzando il provocato
aborto un ferimento della madre, e vedendo il ferire come un rumpere.
[124] L’autrice riteneva non insormontabili le
ragioni che avevano indotto il Cannata inizialmente a rigettare tale
interpretazione - e cioè che Bruto avrebbe dovuto ritenere il feto una
cosa autonoma rispetto alla madre, o comunque non appartenente al genus materno
- e che il collegamento di rumpere con il
feto diluirebbe il nesso di causalità sul quale poggia la responsabilità ex
lege Aquilia.
[125] Bignardi, Frangere e rumpere, cit., 11 ss.; Ead., Gai 3.219 e il principio del
damnum corpore datum, in «AG» 220 (2000) 487 ss.
[126] Per Cannata Bruto avrebbe potuto anche ritenere che il
feto, entità vivente, fosse stato in realtà ucciso, e considerare applicabile
il primo capo della lex Aquilia, ritenendo il feto un cavallo, ma preferì
un'impostazione che 'non implicava alcuna valutazione forzata della realtà',
perchè il feto non è un cavallo in quanto, fino alla nascita, non è un essere
autonomo rispetto al corpo della madre.
[127] Se, per il Corbino, non può negarsi che l’aborto comporti la perdita di
un’utilità legata alla cosa colpita, lo è però solo come spes, e rappresenta cioè un lucro
cessante. Bruto avrebbe, allora, non
solo ritenuto già rilevante il danno da lucro cessante ma anche
considerato tale un lucro dipendente da un fatto incerto come la nascita e non
stimabile anche per la ulteriore incertezza – sesso e caratteristiche individue
– del bene considerato. Non si comprenderebbe, per l’autore, come per Quinto
Mucio l’aborto potrebbe essere divenuto un evento di sicura rilevanza
aquiliana, in quanto la considerabilità del lucro cessante sotto il profilo
aquiliano sarebbe stato un problema aperto anche alcuni secoli dopo. E’,
inoltre, impossibile, per l’autore, che Bruto si sia limitato (senza che il
testo vi accenni) ad una parte delle conseguenze materiali del comportamento
descritto (la perdita del feto) e Quinto Mucio all’altra (i danni alla madre),
essendo tali conseguenze in entrambi i casi necessariamente la perdita del feto
(aborto) e le collegate lesioni alla cosa madre. Se Bruto in D. 9, 2, 27, 22
sembra partire dal presupposto che il feto fosse morto o avesse subito dei
danni, nel caso, invece, la gestazione si fosse trovata ad uno stadio avanzato,
si sarebbe potuto verificare un parto prematuro e il nato sarebbe potuto
sopravvivere senza subire alcun danno, così come la madre (parla solo di parto prematuro F.M. De Robertis, Damnum iniuria
datum, Trattazione sulla responsabilità extracontrattuale nel diritto romano
con particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, Bari 2000, 66; ritiene di
recente Galeotti, Ricerche I,
cit., 244, che il responsum non muterebbe nel caso di un parto prematuro).
Anche Quinto Mucio, il quale ritiene che l’oggetto ruptum sia la cavalla, parte dal presupposto, nel caso
esaminato, che il feto sia morto o la cavalla abbia, comunque, subito dei
danni, ma se il feto fosse, invece, nato vivo, e la madre non avesse riportato
altri danni, potrebbe non verificarsi alcun danneggiamento e conseguente danno
economico.
[128] La convinzione della dottrina dominante
che il feto fosse considerato dai giuristi romani solo una portio mulieris si basa
principalmente, come noto, su Ulp. 24 ad ed. D. 25, 4, 1, 1: Ex hoc rescripto evidentissime apparet
senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier
dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim
antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. post editum plane partum a
muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut
exhiberi sibi aut ducere permitti, e Pap. 19 quaest. D. 35, 2, 9 pr. - 1: In Falcidia placuit, ut fructus postea percepti, qui maturi mortis
tempore fuerunt, augeant hereditatis aestimationem fundi nomine, qui videtur
illo in tempore fuisse pretiosior. Circa ventrem ancillae nulla temporis
admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus homo non recte
fuisse dicitur. P. Catalano, Osservazioni sulla “persona” dei nascituri alla luce del diritto romano
(da Giuliano a Teixeira de Freitas), in Rassegna di diritto civile, 1988, I, 45 ss., ora in Diritto e Persone, Studi su origine e attualità del sistema
romano, I, Torino 1990, 195 ss., ha, peraltro, sostenuto che i due passi
rappresentano solo delle eccezioni, convenientemente motivate, al principio di
carattere generale della parità del concepito e del nato. Osservavo in un mio
precedente articolo, Conceptus pro iam nato habetur, cit., 217 ss., che i due
passi si limitano ad affermare che durante la gravidanza il feto non può essere
preso in considerazione riguardo agli effetti di cui ci si sta occupando, e
cioè la possibilità che la moglie divorziata possa attivare le procedure del senatusconsultum de liberis agnoscendis
dopo aver dissimulato o negato di essere incinta e la possibilità che il figlio
della schiava nondum editus
possa accrescere l’eredità ai fini dell’applicazione della Falcidia. Ulpiano,
con la nota frase partus enim antequam
edatur, mulieris portio est vel viscerum,
alla quale si è da più parti ritenuto di poter attribuire valore decisivo,
afferma semplicemente che il concepito, prima della nascita, non può essere
esibito al padre, perché non è materialmente ancora venuto alla luce: solo dopo
la nascita, il padre potrà domandare che il figlio exhiberi sibi aut ducere permitti. Non si può, d’altro canto,
non tener conto della circostanza che in
numerose fonti classiche il concepito è considerato già in rerum natura, e non solo per il suo commodum, come ritenuto dalla dottrina più risalente (si veda per
tutti E. Albertario, Conceptus pro iam nato habetur, in Studi, I, Milano 1933, 1 ss.) Così
nel noto D. 1, 5, 26, nel quale Giuliano riferisce il principio qui in utero sunt, in toto paene iure civili
intelleguntur in rerum natura esse non solo al concepito da una madre
libera catturata dai nemici, ma anche al concepito da un'ancilla furtiva, già considerato in rerum natura durante la
gravidanza. Se non si può, dunque,
negare che il concepito, non solo da donna libera ma anche da schiava, sia per
Giuliano in rerum natura, non si può neppure negare che solo con la nascita il
concepito può acquistare determinati diritti.
[129] Albanese, Studi,
cit., 201 ss.
[130] Musumeci, Quasi
ruperit, cit., 363 ss.
[131] il caso in questione sarebbe rientrato
agevolmente nell’ambito di tale caput, perché il pugnus e l’ictus avevano
provocato nella schiava e nella cavalla ‘una sicura alterazione organica’. Era
andato distrutto il feto, ritenuto parte della madre; la schiava e la cavalla
avevano, dunque, subito una lesione fisica, un corrumpere, con conseguente
danno economico (probabile diminuzione di valore, spese di cura, mancato
acquisto dello schiavo o del puledro). Anche il Musumeci
aderisce, dunque, alla tesi secondo cui in origine il terzo caput della lex
Aquilia avrebbe fatto unicamente riferimento ad azioni che avessero provocato
la distruzione delle ceterae res. Successivamente, specialmente in connessione
con l’interpretazione, operata dai giuristi, del ruperit nel senso di
corruperit, la casisitica che finì per ricadere sotto il regime della lex
Aquilia sarebbe risultata assai più ampia, includendo anche i danneggiamenti
non distruttivi. Il risultato finale è per il Musumeci che si aveva corruptio
di un bene tutte le volte che fosse rimasto danneggiato a causa di una
qualsivoglia alterazione materiale, ovvero a causa solo di una sua alterazione
funzionale purchè definitiva.
[132] Questa forzatura ermeneutica avrebbe
operato direttamente sulla qualificazione dell’azione lesiva, che, grazie ad
essa, pur non avendo carattere distruttivo e pur riguardando una schiava ed una
pecus, sarebbe stata assimilata alle azioni lesive realmente riconducibili al
rumpere aquiliano.
[133] Corbino, Lex Aquilia, cit., 162.
[134] non si vede,
peraltro, perché le XII Tavole in questo caso avrebbero dovuto parlare di os
fractum e non di membrum ruptum.
[135] Musumeci, Quasi
ruperit, cit., 385 nt. 106.
[136] Galeotti, Ricerche, cit., 249.
[137] La tesi sembra ancora prevalente in
dottrina. Di recente Cursi, Iniuria cum damno, cit., 197 ss.,
ritiene plausibile che fossero originariamente contemplate dal terzo caput solo le distruzioni delle ceterae res, in quanto solo ritenendo che il danneggiamento
originariamente dovesse coincidere con la distruzione totale del bene sarebbe
giustificabile l’originario computo del risarcimento sull’intero valore della
cosa danneggiata nei trenta giorni precedenti.
[138] Quinto Mucio potrebbe aver seguito sul
punto le idee del genitore, dal momento che Ulpiano afferma in D. 7,1,68 pr.
che sulla vexata quaestio prevalse l’idea di Bruto, ma non dice in quale
periodo. V. Arangio-Ruiz,
Cicerone giurista, in «Marco Tullio Cicerone». Scritti commemorativi pubblicati
nel bimillenario della morte, Roma 1961, 1 ss., ora in Scritti, IV, Napoli 1977,
269 ss., seguito da F. Sturm, Zur
ursprϋnglichen Funktion der actio Publiciana, in «RIDA» 9 (1962) 404 ss.,
riteneva la controversia ancora aperta ai tempi di Cicerone (de fin. 1,4,12).
Di diverso
avviso A. Watson,
The Law of Property in the Later Roman Republic, 1968, 215, e M. Talamanca, Costruzione giuridica e
strutture sociali fino a Quinto Mucio, in Società romana e produzione
schiavistica, III, Bari 1981, 319-320 nt. 68, il quale osserva che se il
dissenso fosse continuato in tempi più recenti, l’oratore si sarebbe riferito a
giuristi più vicini, e la citazione di Bruto ad opera di Ulpiano, per quanto
mediata, «sembra indicare, anch'essa, nel senso che la svolta decisiva si fosse
con lui avuta». E’stata invece avanzata da J. Linderski,
Partus ancillae». A «vetus quaestio» in the Light of a New Inscription, in
«Labeo» 33 (1987) 192 ss., l’ipotesi che l'opinione di Scevola e Manllio fosse
ancora prevalente ai tempi di Augusto. L'Autore si basa su un'iscrizione
funeraria trovata a Regium, dove era stata relegata Giulia, la figlia di
Augusto, condannata, come è noto, per adulterio: C. Iulius Iuliae divi
Aug(usti) f(iliae) l(ibertus) Celos (si)bi et C. lulio lul(iae divi) Aug(usti)
f(iliae) l(iberto) Thiaso patr(i sexvir(o) a)ug(ustali) (et iu)liae divae
Au(guslae l(iberlae)) malr(i ex testamen(to). Mentre gli schiavi Thiaso e Celos
vengono definiti liberti di Giulia, la madre di Celos viene detta liberta
della diva Augusta, cioè Livia. Il Lindersky ipotizza che Giulia potesse avere
l'usufrutto sulla schiava, che viveva nella sua familia; il figlio di tale
schiava sarebbe così spettato alI'usufruttuaria, Giulia, il che proverebbe che
l'opinione di Scevola e Manilio che il partus ancillae fosse frutto e quindi
spettasse all’usufruttuaria era ancora prevalente a quei tempi. M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute
alla direzione, in «BIDR» 90 (1987) 593 s., ritiene che l'iscrizione di Regium
non faccia alcuna luce sull’argomento, in quanto l'opinione del Linderski si
basa su ‘arbitrarie assunzioni di fatti’ e ‘su alcuni equivoci relativi alla
valutazione tecnico-giuridica degli stessi’. Non si può, infatti, affermare,
come fa il Linderski, che la schiava rimanesse giuridicamente una schiava di
Livia, ‘but as she lived in Ju1ia's household Julia enjoyed the usufruct of
that ancilla’, perché in questo modo si inventa ‘un nuovissimo modo di
costituzione di questo diritto reale parziario’. Ha dissentito dall'opinione
del Linderski anche A. Watson,
Partus ancillae and a recent Inscription from Regium, in «Labeo» 38 (1992) 335
ss., il quale ha ritenuto non degna di fede l'iscrizione in quanto predisposta
da uno schiavo che non era in grado di cogliere le sottigliezze
giuridiche legate al caso. L’autore contesta al Linderski di non aver tenuto
conto del fatto che perché Giulia, in potestate patris, potesse liberare gli
schiavi facenti parte del suo peculium era necessario il consenso del padre e,
anche ammettendo che questo vi fosse stato, Celos e Thiaso sarebbero divenuti
liberti di Augusto e non di Giulia. Il Watson è del parere che Celos, privo di
adeguate conoscenze giuridiche, ritenesse erroneamente sé e il padre, che di
fatto erano stati schiavi di Giulia e da lei erano stati liberati, suoi
liberti, e correttamente la madre, che di Livia era era stata schiava e da
questa era stata liberata, liberta di Livia. Sembra invece concordare col Linderski P. A. Vander Waert, Philosophical Influence
on Roman Jurisprudence? Tbe Case of Stoicism and natural Law, in «ANRW»
II.36.7, Berlin-New York 1994, 4851 ss., in part. 4857, nt. 21: «but Jerzy
Linderski has now convincingly argued that the position of Mucius and Manilius
was in effect in Cicero's day». Dopo aver ritenuto verosimile che la posizione di Bruto sia in linea di
massima prevalsa sin dal tempo della disputa, osserva F. Zuccotti, «Fruges fructusque» (studio esegetico su D.
50,16,77), Per una ricerca sulle origini della nozione di frutto, Padova 2000,
95, nt. 152 (v. anche Id., Partus
ancillae in fructu non est, in Antecessori oblata. Cinque studi inediti
dedicati ad Aldo Dell’Oro, Padova 2001, 185 ss.), che è tuttavia significativo
che «nel silenzio del nudo proprietario, il partus ancillae potesse essere
trattato come proprio dal fructuarius e che anzi nell'inazione di questi
avrebbe potuto venire ritenuta valida da un punto di vista sociale una
manomissione di fatto posta in essere dalI'usufruttuario che si comportasse
come dominus, dato che, come è ovvio, la situazione di diritto sottesa a tale
fattispecie va in ogni caso fatta valere e che, nella perdurante assenza di una
reazione del titolare, con il trascorrere del tempo la realtà di fatto può
finire col prevalere: per tal verso, dal punto di vista che qui interessa, non
è affatto irrilevante che, in concreto, il figlio dell’ancilla potesse di
regola rimanere con essa presso il fructuarius, trattato da questi e considerato
da tutti come suo servus, quantomeno fructuarius».
[139] Così M.
Kaser, Partus ancillae, in «ZSS» 75 (1958) 157 ss., il quale osserva che
Ulpiano col tamen considera non del tutto “folgerichtig” che Sabino e Cassio
abbiano equiparato agli effetti dell’usucapione i nati animali ai frutti: ‘Die
erste Begründung, die, obwohl sie Ulpian als seine eigene Aussage formuliert,
auf Brutus zurückgehen könnte,
scheint einen Fruchtbegriff zu unterstellen, der es nicht zuläβt, daβ die Frucht von
gleicher Gattung ist wie der Träger, der sie hervorbringt. Hiernach dürfte auch das Tierjunge nicht
zu den Früchten gerechnet werden; und in der Tat empfindet es Ulpian als nicht
ganz folgerichtig (tamen), daβ die Begründer
der sabinianischen Schule die Tierjungen im Fall des Nieβbrauchs den
Früchten gleichgehalten haben’.
[140] Già G.E. Heimbach,
Die Lehre von der Frucht nach den
gemeinen, in Deutschland
geltenden Rechten, Leipzig 1843, 11 ss., osservava che la controversia
sui nati animali fu risolta nel senso che i nati animali, così come gli altri
frutti animali, dovessero appartenere all'usufruttuario, soluzione che venne
accettata sul!'autorità di Sabino
e Cassio: ci si vide, così, costretti ad aggiungere i nati ai già riconosciuti
tipi di frutto degli animali; H. Goppert, Uber die organzischen Erzeugnisse. Eine
Untersuchung aus dem romischen Sachenrechl, Halle 1869, parlava di una
«Unsicherheit» sulla classificazione dei nati animali; G.F. Puchta, Cursus der Institutionen 9,
Leipzig 1881, riteneva sussistente fra i più antichi giuristi una controversia
riguardante la natura di frutto dei parti, anche animali, sostenendo alcuni che
se si applicava al fetus pecorum la
qualifica di frutto, altrettanto si dovesse fare anche per il partus ancillae. Più di recente M. Scarlata Fazio, s.v. Frutti (dir. rom.) in
«ED», XVIII, Milano 1969, 191 ss., in
part. 194, osserva che
l’etiam di D. 22, 1, 28 pr. induce a pensare che sia esistita una perplessità
sulla qualificazione di frutti dei nati animali, risolta in un’epoca non roppo
anteriore a Gaio, che con l’etiam ancora la ricorda; J. Filip-Fröschl, Partus
et fetus et fructus. Bemerkungen zur rechtlichen Behandlung der
Tierjungen bei den Romern, in Ars boni et aequi: Festschrift für Wolfgang Waldstein zum 65. Geburtstag, Stuttgart 1993, 99 ss.,
ritiene che da come si esprime Ulpiano in D. 7, 1, 68, 1 si possa desumere che
la questione discussa nel principium fosse riferitaanche ai nati animali, che
non sono trattati come gli altri frutti, ma sempre citati separatamente. Per R. Cardilli, La nozione giuridica di fructus, Napoli 2000, 97 ss., pur
essendo stata risolta la controversia da Sabino e Cassio, non mancherebbero
strascichi nella giurisprudenza successiva, come dimostrerebbero il tamen di Ulpiano, l'etiam di Gaio, gli elenchi di Gai. sing. de form. hyphoth. D. 20,1,15
pr.: Et quae nondum sunt, futura tamen
sunt, hypothecae dari possunt, ut fructus pendentes, partus ancillae, fetus pecorum
et ea quae nascuntur… e le testimonianze come Pap. 7 resp. D. 22,1,8: Equis per fideicommissum relictis post moram
fetus quoque praestabitur ut fructus, sed fetus secundus ut causa, sicut partus
mulieris.
[141] Pur considerando solo possibile l’ipotesi della
necessità di una differenza ontologica fra nato e cosa madre per la
qualificazione di un bene come frutto, e pur concordando col Talamanca sul
rilievo che, se Bruto avesse inteso formulare tale regola, il suo modo di
esprimersi sarebbe stato inadeguato, ritengo che anche la lettura di in fructu hominis homo esse non potest nel
senso di «in ciò che viene prodotto per l'uomo non vi può essere un uomo»
desti, dal punto di vista letterale, altrettante perplessità.