Dipartimento
di Scienze Humanistiche, Università degli Studi di Catania, Itália
RIASSUNTO: Il presente articolo adotta un approccio storico
al sistema di governo dell'Impero romano e al modo in cui i problemi che coinvolgono
il sistema di governo e i cittadini sono stati risolti. Il lavoro descrive
anche le relazioni instaurate con le nazioni in tutto il bacino del
Mediterraneo, l'impatto economico, poli-tico e sociale generato dalle politiche
e guerre imperialiste per conquistare nuovi territori, il pensiero politico e
giudiziario, la formazione di un modello di Il "costituzionalismo"
caratteristi-co del mondo romano, il rapporto con la scienza giuridica
dell'epoca, nonché alcuni istituti di diritto civile e diritto urba-no. In
considerazione di ciò, il lavoro mira a offrire una rifles-sione in quanto la
legge romana, cercando di risolvere i pro-blemi sociali, economici e politici
dell'antichità, può servire come ispirazione per i problemi della
postmodernità. La ricer-ca è bibliografica, esplorativa, documentaria e
descrittiva. Alla fine dell'indagine, si è concluso che, tornando indietro nel
tempo, è possibile capire se e come problemi simili di urgenza contemporanea
siano stati affrontati e affrontati in questa straordinaria esperienza legale
la cui eredità oggi è preziosa. In tal modo, molte delle soluzioni trovate per
quel tempo pos-sono servire da modello per la legge, per la scienza giuridica e
per il mondo postmoderno.
PAROLE CHIAVE: Diritto Romano. Globalizzazione. Postmodernità.
ABSTRACT: The present article takes a historical
approach to the system of go-vernment of the Roman Empire and how problems that
involved the system of government and citizens were solved. The work also
descri-bes the relations established with nations across the Mediterranean
basin, the economic, political and social impact generated by imperia-list
policies and wars to conquer new territories, political and judicial thinking,
the formation of a model of "constitutionalism" characteri-stic of
the Roman world, the relationship with the Legal Science of the time, as well
as some institutes of civil law and urban law. In view of this, the work aims
to offer a reflection as Roman law, seeking to sol-ve social, economic and
political problems of antiquity, may well serve as inspiration for the problems
of postmodernity. The research is bi-bliographic, exploratory, documentary and
descriptive. At the end of the investigation, it was concluded that, going back
in time, it is pos-sible to understand whether and how similar problems of
urgent con-temporaneity were taken and approached in this extraordinary legal
experience whose legacy today is precious. In such a way, many of the solutions
found for that time can serve as a model for the post-moderns Law, Legal
Science and world.
KEYWORDS: Roman Law. Globalization. Post-modernity.
RESUMO: O presente artigo faz uma abordagem histórica do sistema de governo do Império Romano e de como problemas que envolviam o sistema de governo e cidadãos eram resolvidos. O trabalho descreve ainda as relações estabelecidas com nações de toda a bacia do Mediterrâneo, o impacto econômico, político e social gerado em razão das políticas imperialistas e das guerras de conquista de novos territórios, o pensamento político e judicial, a formação de um modelo de “constitucionalismo” característico do mundo romano, a relação com a Ciência Jurídica da época, bem como alguns institutos do direito civil e do direito urbanístico. Diante disso, o trabalho visa oferecer uma reflexão como o direito romano, buscando equacionar problemas sociais, econômicos e políticos da antiguidade, pode muito bem servir de inspiração para os problemas da pós-modernidade. A pesquisa é bibliográfica, exploratória, documental e descritiva. Ao cabo da investigação, concluiu-se que, voltando no tempo, é possível entender se e como problemas semelhantes da contemporaneidade urgente foram tomados e abordados nessa extraordinária experiência jurídica cujo legado hoje é precioso. De tal forma, muitas das soluções encontradas para aquela época podem servir de modelo para o Direito, para a Ciência Jurídica e para o mundo pós-modernos.
PALAVRAS-CHAVE: Direito Romano. Globalização. Pós-modernidade.
È il 14 d.C., a
Nola muore Augusto, le celebrazioni dei funerali durano un mese, Roma e
l’Italia sono in preda a una parossistica commozione, corre un’isteria
collettiva, il senato è persino indotto a decretare un freno agli eccessi[1]. Il princeps,
il primo cittadino, il pacificatore, il migliore per charisma, virtù, meriti, aveva concluso la sua vicenda umana,
soprattutto una straordinaria vicenda politica e istituzionale, e aveva
lasciato una Roma assai diversa. Un vastissimo impero geograficamente esteso su
tre continenti, che qualche secolo dopo nella sua successiva massima estensione
sarebbe andato da Dura Europos in
Mesopotamia, strategico snodo commerciale sull’Eufrate, al Vallo di Adriano in
Britannia, dalla Gallia e dalla Spagna alle propaggini meridionali dei deserti
nordafricani, si pensi anche alle coorti di stanza a Syene (Assuan) o al fortilizio a Qasr Ibrim, o al distaccamento romano sulle isole Farasan (oggi territorio dell’Arabia Saudita)
per il controllo del Mar Rosso. Nelle sue Res
Gestae, Augusto ricordava gli esiti dei tre censimenti dei cives Romani (28 a.C. = 4.073.000; 18
a.C. = 4.233.000; 14 d.C. = 4.937.000), ma la popolazione complessiva
dell’impero consisteva di circa 54 milioni di abitanti.
Ancora. Un
impero segnato da relazioni fittissime asimmetriche con popoli e nazioni
dell’intero bacino del Mediterraneo, attraversato da una miriade di culti e
idiomi, ma con due grandi aree latinofona e grecofona, culture ed economie diverse
e un ricchissimo e variegato pluralismo normativo.
Questa realtà
era il risultato di 40 anni di governo e di riforme, di una transizione lunga e
difficile e della ricostruzione istituzionale, politica, economica e sociale
della res publica. Un gigantesco
disegno di rifondazione perseguito con sagacia e abilità da Augusto, chiusa la
stagione terribile delle guerre civili, che avevano disintegrato il tessuto
sociale ed economico e sovvertito radicalmente un mondo con i suoi valori (si
pensi soltanto al catalogo delle nefandezze delle proscrizioni)[2].
Il collasso
della Roma repubblicana aveva però radici più antiche e profonde nelle potenti
trasformazioni economiche che avevano frantumato la politica e le sue
istituzioni e travolto gli antichi equilibri di potere fondati su consolidati
assetti sociali. Il grande latifondo schiavile, con le villae vere e proprie strutture economiche produttive più che di
lusso finalizzato all’otium, con le
sue nuove forme di sfruttamento e produzione massicce e intensive, aveva
prodotto la polverizzazione di quel ceto medio e piccolo di
agricoltori/cittadini/soldati, alla base del successo di Roma. D’altro canto,
un contraccolpo potente, diretta conseguenza delle politiche imperialiste e
delle guerre di conquista di nuovi territori, fu la formazione di enormi sacche
di nullatenenti inurbati preda di demagoghi e populisti e la degenerazione del
ricorso alla violenza come metodo di lotta politica, praticata da bande anche
armate. Sulla scena politica, peraltro, da tempo si assisteva all’irruzione e
al consolidamento di un ceto mercantile e affaristico aggressivo e
spregiudicato, capace di impiegare ingenti patrimoni per scalare il potere
politico, insomma, portatore di un nuovo concetto di ricchezza che dissolveva
«gli arcaismi catoniani»[3]. I più dinamici e marcati tratti
mercantili dell’economia avevano, del resto, già esercitato una forte influenza
pure sul quadro istituzionale, con la comparsa, intorno alla metà del III
secolo a.C., della figura del praetor
peregrinus, un nuovo magistrato con il compito di amministrare la giustizia
tra stranieri o tra cittadini e stranieri su questioni, diremmo oggi, di
‘diritto commerciale’[4].
Unificazione
dello spazio Mediterraneo dall’accresciuta sicurezza e perciò pieno di vele,
produzioni e mercati lontani, ricchezza pecuniaria che, dilatando
«artificialmente sia la disponibilità dei fattori di produzione – lavoro, terra
e capitali – sia la domanda di mercato»[5], finiva per marcare un segno anomalo alla
tradizionale nobiltà romana diffidente verso l’imprenditorialità su vasta scala[6], relazione tra commerci e fiscalità
virtuosa[7], tutto ciò spingeva Roma verso i vantaggi
di una ‘mondializzazione’ che nei primi due secoli dell’era cristiana si
sarebbero effettivamente materializzati[8].
Il richiamo di
questo quadro generale forse con eccessivo schematismo, era necessario per
fissare, a scanso di equivoci, una cornice all’intervento: evitare di pensare
che le profonde trasformazioni in atto nel nostro tempo, ora definito della
globalizzazione o della postglobalizzazione, ora della postmodernità, siano
inedite. Le grandi trasformazioni generano sempre transizioni difficili,
complesse, delicate; investono temi cardinali, come quelli della sovranità,
cittadinanza, identità, migrazioni, costanti perenni tanto delle esperienze
statuali moderne quanto di quelle antiche.
Ora, che
nell’antichità il segno delle relazioni dei grandi complessi di potere, regni o
imperi, fosse diverso da quello delle attuali è abbastanza ovvio, che le
relazioni fossero certamente molteplici ma non globali, come possiamo
intenderle oggi, altrettanto evidente. Eppure, per l’impero romano, come già
osservato da Carl Schmitt, le cose stettero diversamente rispetto ad altre
esperienze statuali dell’antichità[9].
Naturalmente,
non vi è alcuna pulsione di Aktualisierung,
né alcun tentativo di accostare un’esperienza storica concreta, dunque cose
lontanissime e diversissime, per proporre ricette adeguate alla complessità dei
nostri tempi; semmai la suggestione di ragionare appunto sulla perennità di
alcune grandi questioni, in connessione con autorevoli visioni campeggianti in
altre discipline scientifiche, e così profittandone, soprattutto nella temperie
che stiamo attraversando in cui la scienza giuridica, forse più che nel
passato, schiacciata tra fondamentalismi di natura diversa – teologie,
tecnocrazia e tecnologia – deve affrontare la questione stessa della sua
esistenza.
Nell’assenza di
una carta costituzionale, persino di un concetto maturo, consapevole di
costituzione, che è prodotto moderno della Storia e degli Stati nazionali,
soltanto dal III-II secolo a.C., sulla base della documentazione sopravvissuta,
sappiamo che a Roma il pensiero politico e giuspubblicistico aveva cominciato a
riflettere su un frammentario nucleo normativo, composto di norme scritte
(poche), consuetudini, prassi, convenzioni costituzionali che definivano
complessivamente un assetto istituzionale e le relazioni tra i vari organi
‘costituzionali’. Non una costituzione, ma un nucleo normativo duttile e
cangiante a seconda delle fasi, degli eventi, dei mutamenti degli equilibri
politici e in tal modo via via stratificatosi. Lo stesso termine constitutio, nonostante l’assonanza e
l’invalsa utilizzazione del termine, è del tutto fuorviante. I Romani usavano,
infatti, altre espressioni: ad esempio status
civitatis, status rei publicae,
ma soprattutto forma rei publicae.
Espressione, questa, non indicativa né di una precisa forma di Stato cioè una
‘Repubblica’, né di una precisa forma di governo (appunto repubblicana), ma di
una comunità – res populi – fondata
sulla libertas (dunque, cives liberi e non sudditi), governata
attraverso una serie di organi (magistrati, assemblee popolari e senato)
concorrenti alle decisioni fondamentali, in un assetto istituzionale
incompatibile con il regnum: potremmo
dire che la vera Grundnorm
repubblicana era l’adfectatio regni =
aspirazione al regnum, alla tirannia[10].
Quella romana, in effetti, fu esperienza assai
peculiare e profondamente diversa sia dalle monarchie ellenistiche e orientali
dispotiche sia dall’esperienza squisitamente greca della polis. Elementi di straordinaria modernità la connotavano: Polibio,
ad esempio, raffinato osservatore interno al circolo degli Scipioni nel II
secolo a.C., ne apprezzava l’originale sistema di governo misto[11], un impianto di pensiero che un secolo dopo veniva rivisitato da Cicerone
nel De re publica, il suo trattato
politico per eccellenza. Cicerone, oltre alla maggiore definizione dei diversi genera rei publicae[12], fissava seccamente il nesso libertas
e populus: nessuna libertas sarebbe stata possibile se non
in una civitas in cui summa potestas est in populi (Cic. de re publ. 1, 31, 47).
Il senato
certo, i magistrati certo, ma una res
publica poteva dirsi tale in quanto res
populi, e pertanto nel populus si
sedimentava la relativa concezione di fonte di sovranità politica, nelle sue
diverse forme legislativa, elettiva e giurisdizionale, e di cui ancora oggi
parliamo, sebbene negli ultimi tempi declinata improvvidamente in populismo.
«A Roma il
consenso politico, nell’equilibrio contemperato tra le varie fasce sociali, era
elemento di cui nessun imperatore avveduto, pur nel suo potere indiscusso e
assoluto, poteva fare a meno. Il consenso istituiva un mutuo dialogo di potere
ed era parte costitutiva di ogni politica del giusto mezzo. Alla lunga
ignorarlo o non rinnovarlo in forma diffusa e bilanciata metteva
necessariamente a repentaglio la vita»[13]. Tutto ciò era già valso per Cesare, e
Augusto seppe trarne la lezione. Trovandosi a fare i conti con questo primo
problema, decise di farlo rinunciando ai poteri triumvirali speciali e
ripristinando il normale funzionamento degli organi repubblicani: senato e
assemblee del popolo.
Sconfitti
Antonio e Cleopatra, Augusto restava il dominatore incontrastato della scena
politica. Godeva di un consenso generale, era il pacificatore, colui che aveva
scacciato il caos, riportato ordine e
normalità. Godeva di un consenso generale ed era potens, come lui stesso diceva in quella testimonianza colma di
ebbrezza di se stesso[14]. Già prima la coniuratio l’aveva consacrato come guida militare, e avrebbe potuto
continuare a far leva su questa situazione nella relazione con il populus. Insomma, privo di alcun limite
dinanzi a sé, Augusto avrebbe potuto imboccare una strada assai diversa dalla restitutio rei publicae, come tutti i
presupposti lasciavano intendere, a favore di una forma spiccatamente
monarchica. Pur in condizioni di potenza, aveva la necessità di trasformare il
consenso in potere. Avrebbe potuto costruire un rapporto inedito con il popolo,
superando aristocrazie, élites,
facendo leva su spinte oggi, diremmo, populiste, e cancellare del tutto le
istituzioni repubblicane; e, invece, si mosse in una direzione contraria,
rinunciando alla potentia, dietro la
consapevolezza della delicatezza della fase e della complessità di un impero
così vasto, con culture e identità tanto diverse e lontane.
La potentia, infatti, nel lessico e
nell’ideologia repubblicani assumeva una connotazione negativa quale situazione
di fatto fuori della legalità. Bisognava al contrario intraprendere una
direzione molto più rassicurante, quindi scelse l’auctoritas, figura antica, ben conosciuta, del diritto privato e
pubblico (dell’auctoritas godevano
pure i giuristi), esprimente su quest’ultimo piano il prestigio, il charisma, l’autorevolezza di un
cittadino che per sue virtù e meriti era riconosciuto tale da tutti e che
pertanto si poneva al di sopra di ogni cosa: insomma, il migliore dei
cittadini.
Scelta la
direzione, bisognava giungere sino alla fine e riaffermare un’idea di sovranità
popolare che al tempo stesso si fondasse sulla ricerca di una rinnovata
identità. La via fu quella di ancorarsi saldamente all’imperium populi Romani che, al di là della valenza egemonica
sottesa, indicava nel populus Romanus
il centro politico di legittimazione del potere. La scelta fu giocata con
successo.
Anche nei secoli successivi, in un principato ormai dai tratti ben
definiti e, certamente, monarchici, il popolo, con il suo atto fondamentale,
cioè la lex, rimase la fonte di legittimazione del potere imperiale; è
esplicito Gai. 1, 5, ma soprattutto:
D. 1, 4, 1pr.
(Ulp. 1 inst.): Quod principi placuit, legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae
de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem
conferat.
Non è un caso
che Ulpiano, quando nell’età dei Severi si procedette alla teorizzazione del
fondamento di legittimità della volontà normativa del principe, abbia
considerato epilogo coerente ricondurla alla matrice popolare: era, infatti,
mediante lex che il popolo delegava
l’imperium al princeps (sebbene il populus
fosse ben altra cosa del populus del
I secolo a.C. – I secolo d.C.).
Non solo,
conformemente al motivo propagandistico della restitutio rei publicae, restaurò il funzionamento di senato e
assemblee popolari, ma puntò sulla centralità della legge facendone uno
strumento fondamentale sia per produrre diritto sia per modificare la forma rei publicae. Se si vuole,
potremmo scorgervi un approccio moderno, presente in alcune recenti sentenze
della nostra Corte Costituzionale (nn. 148, 151, 198 del 2012), secondo la
quale la salus rei publicae non
ammette rimedi extracostituzionali, dato che ogni emergenza deve essere
affrontata con i rimedi consentiti dall’ordinamento costituzionale.
Ad ogni modo,
Augusto recuperava una concezione diffusa nel pensiero politico e giuridico
tardorepubblicano e che possiamo leggere addirittura in un giovane Cicerone[15], che interpretava la lex quale potente rimedio dei mali della res publica. La visione organicistica dello Stato romano e della lex come medicina di un corpo gravemente
malato sarebbe stata uno dei motivi dominanti ampiamente documentati dai testi
giuridici tardoimperiali sino alla produzione novellistica di Giustiniano. Ma,
al di là di questa considerazione, il punto centrale della riflessione e
dell’elaborazione della politica istituzionale augustea fu proprio la centralità
della lex: si può senz’altro dire
che, nell’orizzonte di un impero che aveva sconfitto l’opzione monarchica
orientale, si stagliava con prepotenza la figura del legislatore.
Tutti i
passaggi, gli aggiustamenti, i consolidamenti, le innovazioni, i rinnovi dei
suoi poteri, che ne plasmarono nel complesso la posizione costituzionale,
avvennero mediante leges.
Altrettanto accadde per le
riforme di diritto sostanziale o processuale (si pensi alla poderosa riforma
sulla giurisdizione, con le leges Iuliae
iudiciorum privatorum et publicorum). Importa poco quanto fosse sincero o
studiato il rispetto che Augusto mostrasse verso questa fonte di produzione
normativa, poco importa quanto riuscisse a orientare tutto: un fatto
indiscutibile sul piano formale, e la forma soprattutto nel ‘costituzionalismo
antico’ è sostanza, è che attraverso la legge egli introdusse quei nuovi fundamenta
nel corpo sfibrato dello Stato romano a cui si allude nella biografia
svetoniana[16].
Non a caso,
Tito Livio (2.3.3-4), storico augusteo per eccellenza, nel racconto del
passaggio dalla monarchia alla repubblica, fa pronunciare ai sostenitori del
tiranno cacciato, Tarquinio il Superbo, parole di disprezzo verso la legge come
qualcosa di ‘sordo e inesorabile’, e perciò il più bell’elogio della legge.
Certo, si odono echi dell’antico dilemma tra Antigone e Creonte, ma la legge
con la sua forma scritta in cui si versavano principi, norme, regole svolgeva
una funzione di stabilità[17] e, dunque, rassicurante per un mondo
sprofondato nel caos di un secolo di
guerre civili.
Persino nella
ricostruzione di quell’identità frantumata, Augusto, mirando alla
rivitalizzazione degli antichi mores
maiorum, fece leva sulla lex (le
leggi matrimoniali, quelle demografiche e sociali, ecc.), ridefinendo mediante
essa i principi fondamentali della convivenza sociale.
Il princeps, il gubernator, il timoniere ciceroniano, il migliore per virtù e
meriti, capace di condurre il governo di una res publica anche nei momenti più difficili, chiamava tutti a una renovatio etica riconoscendosi nella lex quale espressione della volontà
popolare lo strumento per prescrivere l’ordinamento futuro.
Fu lungo questa
prospettiva identitaria che Augusto dovette affrontare un altro nodo politico
fondamentale, cioè il rinnovamento della classe dirigente, chiamando attorno
alla sua visione di risanamento della res
publica la migliore intellettualità, e rendendo quella visione patrimonio
collettivo. Lo fece con metodo nella costruzione di una poderosa narrazione
identitaria.
1) Razionalizzò quel fascio difficilmente
districabile e anche contraddittorio sulle origini di Roma di racconti,
tradizioni, miti greci: nacque, infatti, la grande letteratura nazionale con
Virgilio, Livio, Orazio, Properzio, Tibullo, il grandissimo Ovidio[18], finché non entrò, per ragioni ancora
oggi ignote, in rotta di collisione con il principe.
2) Elaborò, con straordinaria abilità, una vera
e propria, ancorché embrionale, teologia imperiale sulla propria persona
declinata con una duplice modalità: cumulo delle cariche sacerdotali (per
l’Occidente); presentazione di se stesso come uomo-dio inviato dalla
provvidenza divina con la missione di portare sulla terra una nuova èra di pace
(si veda l’emblematica iscrizione di Priene del 9 a.C.)[19], per incontrare e interpretare in senso
originale le attese soteriologiche di un messianismo largamente serpeggiante
nei territori orientali (si pensi soltanto a quello giudaico), e diffondendo,
in quell’impero vastissimo segnato da innumerevoli culti, quello unitario del Genius Augusti. Diversità ma identità:
un altro germe di una visione ecumenica o globale.
3) Rinnovò in profondità la classe dirigente.
Non discriminò gli oppositori (esemplare il caso del giurista Labeone a cui
offrì persino il consolato), e puntò decisamente sugli homines novi, l’ordine equestre, depositario di gran parte della
ricchezza in circolazione. I cavalieri costituivano il ceto sociale più
dinamico e attivo nel sistema produttivo economico, negli investimenti,
diventando così altro del semplice contraltare concorrente della vecchia
aristocrazia terriera raccolta nell’ordine senatorio, ma un ceto strategico
aderente al progetto augusteo per il rilancio dell’impero. Si potrebbe dire che
l’abilità augustea realizzò una sorta di istituzionalizzazione, o
canalizzazione, della ricchezza privata verso il fine generale, pubblico, della
ricostruzione della res publica.
Non solo, ma
saggiamente, Augusto mise in pratica una politica di integrazione delle élites locali in una visione generale di
una loro comune partecipazione al potere e al disegno della casa imperiale. Il populus augusteo, naturalmente sotto il
profilo concettuale non coincideva più con il populus di una città-stato. Il populus
era costituito dall’insieme dei cives
dislocati in tutto l’impero romano, di fatto ormai una federazione o, con
metafora assai più suggestiva, una costellazione di poleis, di città, e di innumerevoli popoli o genti. Obiettivo reale
era fermare o, addirittura, prevenire forze e spinte centrifughe e disgregatrici.
La strategia adottata fu, dunque, quella dell’estensione della cittadinanza, su
cui si tornerà più avanti.
In questo
complesso processo di ristrutturazione della res publica, di ridefinizione dei centri politici, quale fu il
ruolo dei giuristi? Mantennero quella caratteristica di tecnicità e separatezza
dal potere politico o cambiò qualcosa? Pur senza perdere quel carattere,
qualcosa mutò e anche significativamente. Augusto aveva piena consapevolezza
che quello romano era un ‘diritto di giuristi’ e non di legisti. Per questo
aprì una fase nuova segnata da una loro chiamata alla partecipazione al potere.
Ci provò persino con un dissidente del calibro di Labeone, uno dei maggiori
giuristi del tempo, che però rifiutò senza andare incontro ad alcuna
conseguenza negativa, ma in generale ci fu la disponibilità a stare a diverso
titolo nell’orbita imperiale.
Assunsero
cariche pubbliche, accettarono lo ius
respondendi ex auctoritate principis, cioè la facoltà di emanare responsi
rafforzata dall’auctoritas di
Augusto, riannodando così quel filo spezzatosi tra prudentes e populus da
cui scaturiva il riconoscimento della loro funzione sociale e creatrice di
diritto, quell’auctoritas di cui
parlava Cicerone. Ma soprattutto parteciparono come consiglieri giuridici
all’esercizio diretto del potere nel consilium
principis, introiettando dentro quel sistema di potere la loro scienza e le
loro tecniche. Non passerà molto tempo infatti perché, oltre alla sostanza, il
metodo casistico dei prudentes romani
divenisse anche il metodo di intervento normativo del principe, soprattutto al
giungere di quella, giustamente considerata, la fase più alta e luminosa della
scienza giuridica romana nell’età dei Severi, in cui i migliori giuristi, Papiniano,
Paolo, Ulpiano, Modestino, assunsero un notevole peso politico, trovandosi ai
massimi vertici della burocrazia imperiale.
La scienza
giuridica fu, dunque, fondamentale, e Augusto investì molto nell’attrazione
verso il regime. Ebbe dalla sua parte Ateio Capitone, il costituzionalista del
tempo, che condivise il progetto augusteo di rifondazione della res publica ed esercitò un ruolo
fondamentale nella sistemazione del potere pubblico e, come dicevamo prima,
nella teorica della sovranità popolare e della lex, come fa fede la sua celebre definitio:
Gell. N.A. 10, 20, 2: Ateius Capito, publici privatique iuris peritissimus, quid ‘lex’ esset,
hisce verbit definivit: “Lex” – inquit – “est generale iussum populi aut plebis
rogante magistratu”.
Non è privo di
significato che Gellio ricordasse Ateio Capitone[20], peritissimus
publici privatique iuris, un autorevole giurista capace di dominare i due
settori del diritto, non solo quello tradizionale privatistico, ma pure lo ius publicum, quale sapere specialistico
relativo allo status rei Romanae (D.
1, 1, 1, 2 [Ulp. 1 inst.]), che andò
via via acquistando un peso rilevante, man mano che l’apparato istituzionale e
amministrativo cresceva, accompagnato anche da una maggiore articolazione del
potere nella sua dislocazione territoriale.
Verrebbe da
chiedersi oggi dove siano i giuristi, quale sia il loro ruolo, a cosa sia
dovuta la loro grave assenza soprattutto nei luoghi della rappresentanza
politica, nelle assemblee titolari della produzione legislativa, perché si accetti
ancora la compressione mortificante tra il potere politico sovente inadeguato e
quello dei tribunali.
Ma torniamo ad
Augusto. Il principe e la classe dirigente chiamata e formata accanto a sé
sapevano di dover governare un pluriversum,
in cui la res publica mostrava una
sostanza complessa e composita quasi come una costellazione di città o un
reticolo di entità statuali di diverso livello e di sovranità diseguale e
subalterne a quella romana: civitates
di differente statuto giuridico, liberae
ac immunes, foederatae, regna amici, ecc. L’obiettivo gigantesco
era quello di plasmare un governo mondiale, o se mi è permesso una ‘global governance’. L’uso di simili
espressioni, naturalmente, lungi dall’essere un vezzo, risponde a una banale
esigenza di comodità rispetto a un orizzonte di mondializzazione indotto dal
concetto antico di confine molto diverso da quello moderno, o forse meglio
dall’assenza dello stesso. Secondo la concezione romana, infatti, l’impero
coincideva con il mondo o viceversa[21], oltre la demarcazione romana c’era
l’altro, l’alterità, ma si era fuori dalla civiltà, cioè il barbaricum. Pertanto, rispetto
all’essenza di un orbis consistente
in un universo complesso, diversamente integrato e plurale di popoli, etnie,
lingue, religioni, culture e tradizioni e ordinamenti giuridici diversi, la
funzione esplicata dalle frontiere, da non intendere in senso esclusivamente
militare[22], era fondamentale. Non a caso, e da
tempo, la migliore letteratura storiografica in tema di frontiere e confini ha
dimostrato come questi debbano piuttosto essere intesi come significative aree
di interazioni sociali e culturali[23].
È in questa
fase, e in relazione a determinate questioni di particolare delicatezza, che
possiamo misurare il peso dei prudentes romani,
e a tal proposito prendo in prestito alcune efficaci
considerazioni, esordio di un agile e illuminante saggio, di Natalino Irti: «Soggetti, cose, atti abitano
nello spazio. Ognuno di essi è individuato da un luogo e riceve un predicato di
posizione. Il linguaggio giuridico è tutto intriso di richiami spaziali:
dimora, residenza, domicilio delle persone fisiche; sede delle persone
giuridiche; confini di terre e di altri beni immobili; contiguità o vicinanza
di fondi; luoghi di conclusione di accordi, di adempimenti di doveri, di
esercizio di diritti. L’applicazione di una o altra norma appare congiunta ai
luoghi dell’aria e del mare, sui quali la superficie terrestre quasi si espande
e irradia. C’è, nel profondo nascere e svolgersi del diritto, un legame
terrestre, un’originaria necessità dei luoghi»[24]. Irti ci consegna una elementare considerazione: qualunque sia
l’ordinamento giuridico preso in considerazione, per spazio fisico e per tempo,
il diritto ha bisogno di spazi e luoghi.
Se vale ancora oggi, doveva ancor più valere
allora. Davanti alla necessità di amministrare uno spazio di dimensioni
gigantesche, Augusto e la nuova classe dirigente si trovarono dinanzi a questa
nuova e prorompente esigenza. Del resto, Augusto stesso assolve a tale compito
di ricognizione dello spazio e di riorganizzazione, quando nelle sue Res Gestae annota la deduzione di 28
colonie in Italia, e altre in Africa, Asia, ecc., la riconquista e riconsegna
di numerosi territori all’imperium populi
Romani. Il princeps in persona[25] e la nuova classe dirigente, dunque, furono costrette a inventare mezzi
sempre più avanzati di censimento della popolazione, di misurazione delle distanze,
di rilevazione topografica e catastale, si crearono circoscrizioni
amministrative con i loro strumenti (i ‘Regionari’), si elaborarono criteri di
relazioni della persona con luoghi e territori. Insomma, un immenso lavoro
collettivo, un ‘inventario del mondo’, per utilizzare il titolo di un bel libro
di Claude Nicolet[26], che pose le basi per una nuova geografia amministrativa al servizio del
governo del mondo.
Proprio in
questo arco cronologico i giuristi, impegnati nella costruzione di un nuovo
impero mondiale, riflettono su grandi temi, come la cittadinanza, escogitano
nuovi strumenti di governo e di criteri di relazione tra persona e territorio
nell’ultimo secolo repubblicano. Vi è l’intera scienza giuridica in campo per
decifrare la nuova realtà, per tradurre in principi e regulae coerenti, e contribuire così alla costruzione della
disciplina giuridica dello spazio della nuova forma rei publicae.
I testi dei
giuristi romani sopravvissuti grazie a quello straordinario giacimento che sono
i Digesta di Giustiniano sono
generosi ed eloquenti, a cominciare dal domicilium.
È proprio negli ultimi cinquant’anni a.C. e nei primi decenni della genesi del
principato che quel tema diventa oggetto di dibattito. E mentre la scuola
serviana, con Alfeno Varo, cesellava una definizione di domicilium:
D. 50, 16, 203
(Alf. Var. 7 dig.): In lege censoria portus Siciliae ita
scriptum erat: «servos quos domum quis ducet suo usu, pro is portorium ne
dato». Quaerebatur, si quis a Sicilia servos Romam mitteret fundi instruendi
causa, utrum pro his hominibus portorium dare deberet nec ne. Respondit duas
esse in hac scriptura quaestiones, primam quid esset «domum ducere», alteram,
quid esset «suo usu ducere». Igitur quaeri soleret, utrum, ubi quisque
habitaret sive in provincia sive in Italia, an dumtaxat in sua cuiusque patria
domus esse recte dicetur. Sed de ea re constitutum esse eam domum unicuique
nostrum debere existimari, ubi quisque sedes et tabulas haberet suarumque rerum
constitutionem fecisset,
con una visione
che ritroviamo riflessa nella nostra contemporanea definizione civilistica
dell’istituto (art. 43 c.c.: Il domicilio
di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi
affari e interessi), quale luogo ove si realizza la vita della persona e si
concentrano i propri interessi, altri si interrogavano sulla legittimità del
domicilio doppio o plurimo osservando la mutata realtà sociale ed economica
imperiale: traffici commerciali intensi, presenza radicata di cittadini in ogni
angolo del bacino del Mediterraneo a svolgere attività economiche, spingevano i
giuristi romani a dibattere.
E si
dividevano: se una maggioranza era favorevole, all’opposizione, invece, si
schierava apertamente Labeone, espressione del conservatorismo repubblicano e
giurisprudenziale. E si affinavano principi e regulae, sino a giungere ad affiancare al mero criterio materiale
dell’habitatio o della strutturazione
della propria attività commerciale, l’indagine della volontà, l’animus, della persona su quale luogo
considerasse davvero il proprio domicilio[27].
Al tempo
stesso, il domicilium, oltre che
nella sua essenza di luogo di imputazione degli affari e delle relazioni
giuridiche, veniva preso in considerazione da un’altra e più delicata
angolazione, cioè quale sfera personale riservata alla persona e come tale da
proteggere da illegittime intrusioni materiali, persino violente. Basta una
semplice analisi lessicale per comprendere la ricchezza della riflessione dei
giuristi romani e della straordinaria eredità lasciataci. Emblematico, un testo
di Ulpiano, relativo all’interpretazione della lex Cornelia de iniuriis che puniva in sede criminale le violazioni
di domicilio aggravate dall’uso violenza[28]. Poiché nel testo della legge si usava domus piuttosto che domicilium, Ulpiano, che richiamava i termini di un dibattito di
cui fu protagonista ancora una volta Labeone, precisava che l’interpretazione
di domus dovesse essere estensiva e
non restrittiva, non limitata alla domus
di proprietà, ma a qualunque abitazione in cui si trovasse, a qualsivoglia
titolo giuridico, l’individuo vittima della violazione violenta del domicilio.
Un’analisi del
lessico giuridico romano in materia porterebbe a risultati interessanti: in
alcuni casi si usa il termine domus,
altre volte domicilium, altre volte
ancora ci si riferisce all’habitatio,
cioè al mero fatto materiale di abitare in un certo luogo, e così via; in altri
termini, si assiste a un continuo slittamento semantico che sembrerebbe deporre
per uno stato di elaborazione della materia ancora grezzo, e una sostanza
giuridica ancora confusa.
Ma se
conducessimo una medesima analisi semantica sulla disciplina giuridica
contemporanea avremmo una sorpresa. Partiamo dall’ordinamento giuridico
italiano con l’art. 43 del codice civile italiano del 1942:
Il domicilio di una persona è nel luogo in cui
essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora
abituale.
L’influenza
della concezione del domicilio romano è evidente: la sede principale degli
affari e degli interessi (ricordiamo la definitio
alfeniana di domus quale sede in cui
sono conservate le scritture contabili, quindi un chiaro riferimento agli
affari e alla loro dimensione giuridica) deve essere tenuta distinta dalla
dimora abituale. Ma, passando da una dimensione privatistica a una
pubblicistica, il quadro muta ed è agevole osservare come nel nostro
ordinamento residui un approccio unitario tra residenza e domicilio, che sembra
tendere a non distinguere tecnicamente le due figure ai fini della tutela della
sfera della persona. Ciò appare evidente nelle formulazioni dell’art. 14 della
Costituzione:
Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono
eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi stabiliti
dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà
personale. Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità
pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali;
nella sua
connessione con il dispositivo dell’art. 614 del codice penale:
Chiunque s’introduce nell’abitazione altrui, o in
un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la
volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi
s’introduce clandestinamente o con l’inganno, è punito con la reclusione fino a
tre anni. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro
l’espressa volontà di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene
clandestinamente o con inganno. Il delitto è punibile a querela della persona
offesa. La pena è da uno a cinque anni, e si procede d’ufficio, se il fatto è
commesso con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è
palesemente armato.
La prima delle
due formulazioni si riferisce più
direttamente al domicilio, intendendo il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, secondo
l’art. 43 del codice civile italiano; la
seconda, invece, più in generale contempla qualunque luogo riconducibile a una
persona (abitazione altrui o privata
dimora), la cui violazione ingiustificata configurerebbe un’intrusione
illecita nella sfera individuale.
E, infine, a
completamento della sinossi può aggiungersi anche l’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo:
Nessun individuo può essere sottoposto a
interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua
casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua
reputazione. Ogni individuo ha diritto a essere tutelato dalla legge contro
tali interferenze o lesioni.
Mentre con la
rivoluzione tecnologica e con il poderoso impatto sulla vita sociale degli
strumenti informatici e del web, ci
si è proiettati su dimensione diversa in cui tutto è più astratto, meno
materiale, lo spazio diventa indefinibile, come si legge nella formulazione di
una nuova fattispecie di ‘violazione del domicilio’, contenuta dall’art. 615 ter del codice penale italiano:
Chiunque si introduce in un sistema informatico o
telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la
volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo è punito con la
reclusione fino a tre anni.
Introdursi
clandestinamente in un server, in un computer, in una cloud, o in cos’altro, per quanto lontanamente assimilabile,
configura oggi una violazione di domicilio. Chiunque può accorgersi che tutte
queste disposizioni differenti e diversamente efficaci sono accomunate da un
singolare slittamento semantico: casa, sede principale, abitazione, luogo di
privata dimora, dimora abituale; mentre lascio fuori quelle informatiche o
telematiche. Su queste basi, allora, può davvero parlarsi di incertezza? Erano
allora soltanto i giuristi romani tardorepubblicani ad apparire incerti o
confusi? La risposta è no. Al contrario, a proposito degli strumenti di
inquadramento e di relazione tra persone e territorio, è noto che gli interessi
in gioco producono effetti prismatici assorbenti e di assoluto interesse, e
tali furono quelli che si determinarono man mano che si procedeva alla
costruzione e razionalizzazione dello ‘Stato imperiale’ romano.
Il criterio su cui si fondava il rapporto tra
una persona e una comunità cittadina consisteva nell’urbanitas,
termine evocante, da un canto, un essenziale tratto identitario culturale della
cittadinanza romana e, da un altro, la relazione tra una persona e un
territorio. Ma in cosa consisteva l’urbanitas?
Sull’affinamento dell’urbanitas la
scienza giuridica fu decisiva. In particolare, può richiamarsi un passo assai
significativo di Ulpiano, che contribuisce a chiarire appunto cosa entrasse in
gioco nella valutazione della relazione tra una persona e il territorio, o i
territori, su cui insisteva:
D. 50, 1, 27, 1 (Ulp.
2 ad ed.): Si quis negotia sua non in colonia, sed in municipio semper agit, in
illo vendit, emit contrahit, in eo foro balineo spectaculis utitur, ibi festos
dies celebrat, omnibus denique municipii commodis, nullis coloniarum fruitur,
ibi magis habere domicilium, quam ubi colendi causa deversatur.
Ulpiano prendeva
in considerazione il caso di chi possedeva un rapporto ambiguo con due
strutture urbane, una colonia o un municipio: in una città conduceva i propri
affari negoziali, frequentava il foro e le terme, partecipava agli spettacoli e
alle feste, in un’altra invece concretizzava semplicemente una materiale habitatio. Il giurista severiano, com’è
evidente, ai fini dell’attribuzione del domicilium
individuava un preciso indicatore della qualità del legame di un individuo con
il territorio, e cioè la partecipazione alla vita economica, sociale e
culturale di una città.
Il tema ricorre
in un altro testo di un altro giurista severiano, Modestino:
D. 50, 1, 35
(Modest. 1 exc.): Είδέναι χρή ότι ό έν
άγρώ καταμένων ίνκόλας ού νομίζεται ό γάρ έκείνης τής πόλεως έξαιρέτοις μή χρώμενος
ού νοίζεται είναι ίνκόλας.
Il caso
affrontato è quello della determinazione del domicilio di chi, abitando in un
fondo rustico, non si avvaleva delle prerogative, dei vantaggi, dei servizi,
insomma dei commoda, della città.
Ora, è utile ricordare le numerose disposizioni ricorrenti negli statuti
municipali in cui si contemplavano ed enumeravano proprio tali aspetti: basta
scorrere, per esempio, la lex Irnitana
in cui si menzionano cenae e ludi (cap. 77); distribuzioni di denaro
(cap. 79); spectacula (cap. 81); epula, viscerationes (cap. 92)[29]. Però, non è che a questa soluzione si
fosse giunti soltanto nel III secolo d.C.: in realtà, le posizioni di Ulpiano e
Modestino confermano un preciso e univoco orientamento di continuità dei prudentes romani attenti non tanto, o
almeno non soltanto, al luogo dove banalmente si soggiornasse, cioè dove
diremmo volgarmente oggi si andasse a dormire, ma alla sostanza reale e
qualificata del rapporto tra individuo e comunità[30].
Si trattava,
insomma, di uno dei cardini su cui ruotava l’essenza della romanità, cioè l’urbanitas quale stile di vita urbano che
soltanto una struttura cittadina era in grado di offrire ai propri membri: «un
tessuto urbanistico fatto di edifici privati e pubblici con strutture in grado
di assicurare la vita associata nel profilo economico, culturale, politico».
L’attenzione anche alle strutture materiali, ove si svolgeva la vita cittadina,
costituì sempre una delle fondamenta ideologiche della città e della
cittadinanza: templi, fori, teatri, terme, fontane, ginnasi, scuole, definivano
un modello non solo e non tanto urbanistico quanto assai più profondamente
culturale[31]. Lo schema del modello era già offerto da
Cicerone che nel De officiis, in un
tentativo di inquadramento definitorio del civis,
teneva strettamente congiunti tre aspetti (Cic. de off. 1, 17, 53: multa enim
sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura,
iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates cum multis res
rationesque contractae).
Dunque, dagli
elementi istituzionali, quali il diritto e i giudici e la politica (leges, iura, iudicia, suffragia), ai rapporti interpersonali e
di affari (‘consuetudines praeterea et
familiaritates cum multis res rationesque contractae’), alle strutture
materiali cittadine (forum, fana,
porticus, viae), nonostante la distanza di diversi secoli, da Cicerone a
Ulpiano, la linea non appare affatto mutata. Nelle righe ciceroniane troviamo
la più incisiva dimostrazione che la città non è un semplice fatto materiale,
non è solo pietre, ma anche, direi soprattutto, modelli culturali, moduli
politico-organizzativi, idee; ma niente di tutto ciò potrebbe allignare al di
fuori di uno spazio urbano organizzato secondo il tempo della politica, dello ius, degli affari. Sempre quei medesimi
tre aspetti cesellarono a tutto tondo lo status
di un cittadino e il suo rapporto con una comunità urbana, e il cuore del
problema restava appunto quello della cultura urbana, misura di una compiuta
romanizzazione, di norma requisito per il conseguimento della cittadinanza.
La città era
l’essenza dell’impero romano, la sua stessa base senza la quale non sarebbe
stato nulla e la campagna non era altro che una parte del suo territorio. Nel
suo incompiuto Die Stadt, Max Weber
ha avvertito come nella definizione di città la grandezza non fosse carattere
decisivo[32]. A prescindere dalle dimensioni, ovunque
arrivasse, l’impero creava città o nei territori privi di ogni cultura urbana
organizzava centri e comunità di villaggio, diversamente denominati (fora, vici, loci, conciliabula, oppida, castella) secondo
una tipologia variabile in base ad alcuni tratti fisionomici prevalenti, ma il
cui approdo allo stadio finale della forma della città era l’esito solo
eventuale di un processo graduale di crescita e trasformazione[33].
Il paradigma
della città con il suo modello culturale sintetizzato dal termine urbanitas, lo ritroviamo in un Elogio di Roma pronunciato da un giovane
e brillante retore intorno alla metà del II secolo d.C., Elio Aristide[34]. Nella visione aristidea l’urbanitas si condensava nelle
peculiarità di Roma, appunto città per eccellenza, munita di quella particolare
fisionomia grazie alla quale le si assegnava il primato nel confronto con le poleis e gli imperi del passato; un
tratto che recava in sé la ricchezza dei consumi e delle abitudini, la bontà
delle istituzioni e del governo.
Elio Aristide
tratteggia un quadro assai definito nel suo perimetro retorico, ove i confini
dell’impero erano i confini del mondo, la pace e il paradigma della città
costituivano l’architrave della sua rappresentazione di un impero-mondo, di un’urbs fattasi orbis, communis patria,
come aveva già scritto Cicerone: «Il mondo intero è stato trasformato in un
delizioso giardino», le campagne sono sicure «le fumate che si levavano dalle
pianure, i fuochi di segnalazione per amici e nemici sono svaniti», i mari
adesso sono solcati «da navi mercantili invece che da triremi da guerra»,
l’impero è segnato da una moltitudine di città «le coste del mare e le regioni
dell’interno ne sono gremite», e dovunque «ginnasi, fontane, templi,
manifatture, scuole». Alla stessa stregua di Cicerone, Elio Aristide
individuava il merito principale dell’impero romano nell’aver fatto della
città, della polis, il paradigma
dell’assetto politico e istituzionale e della stessa civiltà.
In tal modo il
processo di uniformazione trovava un suo cardine fondamentale e si compiva
nella globalità dell’impero: anche per i territori orientali la polis diveniva la forma organizzativa
della convivenza civile e dello sviluppo economico; e su queste basi, non a
caso, si radicava il consenso delle élites
di cultura greca. È utile rileggerne l’affresco nella pagina aristidea: «[...] Il mare come una cintura segna
il centro dell’ecumene e allo stesso tempo del vostro impero; [11] e intorno al mare si stendono i continenti,
grandi in grande spazio, che sempre vi forniscono in abbondanza qualcuno dei
beni che da essi provengono. Qui confluisce da ogni terra e da ogni mare quello
che generano le stagioni e producono le varie regioni, i fiumi, i laghi, e le
arti dei Greci e dei barbari; se uno vuole osservare tutte queste cose, bisogna
o che se le vada a vedere viaggiando per tutta l’ecumene, o che venga in questa
città. Infatti quando nasce e si produce presso ciascun popolo, non è possibile
che non si trovi sempre qui addirittura in abbondanza. Tante sono le navi da
carico che giungono qui trasportando tutti i prodotti da tutti i luoghi, in
ogni stagione, in ogni volgere d’autunno, che l’Urbe sembra il laboratorio
generale della terra. [12] E si
possono vedere così tanti carichi dall’India e volendo anche dall’Arabia
Felice, da potersi presumere che ormai a quei popoli gli alberi sia rimasti
spogli, e che anche loro debbano venire qui a cercare i loro stessi prodotti,
nel caso che abbiano bisogno di qualcosa; inoltre tessuti babilonesi e
ornamenti delle regioni barbare più lontane arrivano in molto maggiori
quantità, e molto più facilmente, che se si dovesse venire ad Atene portando
qualche prodotto di Nasso o di Citno; e l’Egitto, la Sicilia e la parte fertile
dell’Africa sono come vostri poderi. [13] Gli arrivi e le partenze delle navi si susseguono senza posa, così che
c’è da meravigliarsi non tanto che il porto, quanto che il mare stesso riesca,
se pure riesce, a contenere un così gran numero di imbarcazioni. E veramente si
può dire, come diceva Esiodo degli estremi confini dell’Oceano – che c’è un
luogo dove tutto confluisce in un unico principio e in un’unica fine – che qui
tutto converge, commerci, navigazioni, agricoltura, metalli lavorati, tutte
quante le arti che ci sono o che ci sono state, tutto quanto è prodotto o
generato dalla terra. Quello che non si riesce a vedere qui, non rientra
nell’ordine delle cose che sono esistite o esistono; per questo non è facile
decidere se sia più l’Urbe a superare le città a lei contemporanee, o il suo
impero a superare tutti gli imperi del passato» (Ael. Arist. Elogio
di Roma 10-13).
Le élites cittadine trovavano voce in Elio
Aristide per descrivere se stesse come la vera ‘spina dorsale’ dell’impero
romano: «di qui l’ambivalenza di un elogio di città che è l’elogio della stessa
costruzione imperiale nella sua dimensione territoriale complessiva, come
spazio politico, amministrativo, militare e anche economico unitario»[35] e, certamente, in quanto dilatazione del
paradigma della città. Roma era l’impero, non tanto la capitale, e le casate
imperiali e le classi dirigenti centrali furono sempre consapevoli del fatto
che le mille città dell’impero fossero il fulcro politico del consenso ed
economico delle tante reti regionali di cui si componeva il panorama
mercantile.
Corre, infatti,
un unico filo rosso nei secoli imperiali, che per comodità facciamo andare da
Cicerone in avanti. Quando nel 177 d.C. Marco Aurelio decise di concedere la
cittadinanza romana a esponenti di una tribù nomade berbera (gli Zegrenses), nella motivazione del
provvedimento, fondata sulla sua comprovata e assoluta fedeltà all’impero, ne
sottolineava l’eccezionalità, perché Roma era restia a darla a persone
appartenenti a organizzazioni tribali seminomadi, come nel caso in questione,
lontane dallo standard di
romanizzazione espresso, in particolare, dal modello di vita associata in città[36].
Città e urbanitas furono sempre connessi al
tema, perennemente infuocato, della cittadinanza (e, perciò, della
romanizzazione). Dinanzi alla tumultuosa ansia palingenetica e di
pacificazione, Augusto intuì abilmente come uno snodo centrale passasse dalla
necessità di invertire una tendenza in tema di cittadinanza. La linea politica
di geloso esclusivismo in materia di concessione di cittadinanza, praticata con
rigore per secoli dai gruppi dirigenti repubblicani, era ormai davvero insostenibile.
Del resto, aveva prodotto disastri incalcolabili, come il bellum sociale nell’ultimo secolo della repubblica, che si chiuse
con la vittoria militare romana ma con la vittoria politica degli alleati
ammessi allo ius civitatis[37].
In un celeberrimo
dialogo, riportato da Cassio Dione, di Augusto con i suoi uomini più fidati
Agrippa e Mecenate (il militare e il politico intellettuale), quest’ultimo
sollecitava il princeps a chiamare
alla partecipazione al potere il notabilato locale: «dichiaro che tutti devono essere chiamati a
prendere parte al governo, in modo tale che, partecipando alla pari anche in
questo, siano nostri fedeli alleati come se vivessero in un’unica città, che
definiamo nostra, considerandola tutt’uno con i loro campi e i loro villaggi» (Cass. Dio 52, 19, 6). In questa idea
antica, non importa poi se davvero ascrivibile a Mecenate o ad Augusto o allo
stesso Cassio Dione, vi è un nucleo di assoluta modernità, quello del
‘villaggio globale’: relazioni tra gruppi dirigenti di comunità lontane
dislocate anche agli estremi di un impero sterminato, come se stessero in
un’unica città. Una visione moderna che mirava a tenere insieme élites e popolo, città e campagne,
cittadini urbanizzati e masse rurali.
Augusto apriva,
così, il varco alla doppia cittadinanza per includere le élites locali in una visione comune e di partecipazione al potere.
Per quanto la situazione sia molto diversa, è indubbia l’analogia con uno dei
temi contemporanei più scottanti sul campo europeo, appunto la frattura tra
centro e periferia, tra élites e
popolo. Nell’attuale temperie mondiale, l’irruzione potente dei nuovi
nazionalismi declinati nella forma del ‘sovranismo’ hanno prodotto fatti
politici enormi e, conseguentemente, sollevato un gigantesco dibattito. Sovviene,
istintivamente, l’esito referendario britannico della Brexit che ci ha plasticamente rappresentato la divaricazione tra
città e campagna nel mondo anglosassone. Abbiamo visto soccombere la visione, e
la voglia, di cosmopolitismo, di integrazione, di unità pur nella diversità,
dinanzi all’arrembante pulsione centrifuga, scatenata da propagande fondate su
paure, egoismi, nazionalismi.
L’Italia non ne
è rimasta immune. Gli esiti delle recenti vicende politiche hanno così
stimolato un libro intelligente, acuto, The
Game (pubblicato per i tipi di Einaudi, 2018), di Alessandro Baricco, su
alcune coordinate discusse poi per qualche settimana sulle colonne del
quotidiano La Repubblica[38]. Provo a riassumerne la sostanza. Baricco
sostiene che il caos attuale derivi,
sostanzialmente, dalla rottura del patto tra élites e la gente, e cioè nel fatto che «la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta
di sfumata impunità, e le élites si
prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui
sia meglio per tutti vivere […] una comunità in cui le élites lavorano per un mondo migliore […]». Se poi invece accade il
contrario, se la crisi, mentre divora economie e travolge intere masse
popolari, non colpisce le élites,
comprendiamo i termini del problema e della sua capacità di innescare processi
dagli esiti imprevedibili: frantumazione della classe media, smarrimento dei
suoi valori, rifiuto, se non disprezzo, delle istituzioni, perdita di identità,
insorgenza di culture violente, tendenze secessionistiche, pulsioni di
l’abbattimento del sistema.
Con tutti i
dovuti distinguo, sono innegabili i tratti di affinità con alcuni momenti
cruciali dell’antichità e, per il tema che si sta trattando, dei problemi che
Augusto si trovò ad affrontare. E, allora, se con tutta la cautela necessaria
analizziamo freddamente le questioni, affiora subito la cifra alta della
strategia politica augustea.
Attraverso un
sapiente processo di integrazione nel sistema di governo, chiamate a fianco del
nuovo protettore della res publica,
le élites locali avrebbero
accresciuto il corpo civico romano, assicurato una capillare adesione alle
politiche imperiali, accelerato la romanizzazione delle loro comunità
attraverso la diffusione del modello urbano romano e dei relativi costumi e
idee, garantito loro un avanzamento sul piano dei benefici giuridici e un
maggior benessere generale. Avrebbero in fin dei conti fatto uscire persino
dalla marginalità periferica la loro comunità. In più, questione nient’affatto
trascurabile, avrebbero garantito ordine. Non c’è dubbio che l’obiettivo di
trasformare la potenza in ordine abbia costituito la cifra più alta e
qualificante dell’azione augustea, la pietra angolare su cui costruire un nuovo
e complesso edificio istituzionale adeguato alla massa critica di un impero
sterminato che richiedeva un nuovo ordine mondiale. Insomma, un obiettivo del
tutto diverso da quell’allontanamento delle comunità locali e periferiche che
si potrebbe a prima vista pensare, e finalizzato invece a una piena
integrazione e partecipazione di élites
e popolo, naturalmente secondo lo stato e i canoni del tempo. Augusto mise in
pratica questa linea politica con alcuni provvedimenti, di cui è sopravvissuta
fortunatamente la documentazione epigrafica, come il III Editto ai Cirenei[39] e l’Editto di Rhosos, con i quali concedeva appunto la cittadinanza romana alle élites locali, consentendo al tempo
stesso di restare integrati nelle loro comunità, e, così, permettendo loro di
avvalersi di nuclei normativi distinti e di tribunali diversi[40].
Certo, potrebbe
obiettarsi che l’esperienza augustea guardasse ai notabili più importanti di
tutte le province, secondo il consiglio di Mecenate. Sembrerebbe, insomma, una
testimonianza di disprezzo e di lontananza rispetto alle periferie, attenta
alle élites, quindi orientata in
direzione contraria al problema, ma la contraddizione è soltanto apparente, o
almeno non lo è per quei tempi e in quel contesto. In realtà, l’impianto
ideologico, poi alla base delle trasformazioni politico-istituzionali e
amministrative, seguiva l’efficace linea strategica, suggerita dall’abile e
raffinato consigliere, di costruzione del consenso attraverso l’attrazione
nell’orbita del principe della migliore aristocrazia locale, delle classi
possidenti delle città di Occidente e Oriente, come volano di sviluppo e, in
definitiva, di accelerazione del processo di romanizzazione. L’emersione, dopo
il secolo tragico delle guerre civili, di nuovi ceti possidenti disponibili a
‘scambiare’ fedeltà con pace e benessere produsse la formazione di una sorta di
omogeneo notabilato mediterraneo sicuramente il principale beneficiario della
crescita romana ma anche in grado di permettere in qualche misura una
distribuzione di ricchezza, con fenomeni di ‘delocalizzazioni’ di attività
produttive dall’Italia alle province[41], e persino con incontestabili effetti
benefici pure sui ceti meno abbienti. Perché nello spazio urbano, serbatoio e
vivaio di saperi, competenze amministrative e politiche, depositi di ricchezze
e propulsori economici, non vi erano solo élites
ma si addensavano larghi ceti medi che appunto vivevano, aderendovi
ideologicamente, secondo quel modello organizzativo politico ed economico
urbano.
Fu, appunto,
inscindibile e biunivoco il nesso tra consenso e integrazione: non si aveva
consenso se non si realizzava integrazione. Tale nesso fu declinato attraverso
il modello urbano ed emerse grazie a un lungo e non sempre lineare processo di
maturazione politica, e per la verità non del tutto attribuibile ad Augusto,
come ci consente di osservare la documentazione sopravvissuta: si veda, ad
esempio, quanto scritto da Cicerone a Quinto a proposito del suo proconsolato
d’Asia (Cic. ad Quint. fr. 1, 1, 27).
Ma ben oltre Cicerone, è indubbio il merito dell’azione augustea di consolidare
quel nesso, anzi di assumerlo come strumento per plasmare la nuova res publica nelle forme dello ‘stato
municipale’, per usare una felice espressione di Emilio Gabba[42], rimodulata con altrettanto efficacia in
‘impero municipale’ da Luigi Capogrossi Colognesi[43], quale trama sempre più complessa di
relazioni tra centro e periferie improntata a un sistema di municipia e coloniae, a cominciare dall’Italia come si evince già da RGDA 21, 3[44]. Nella biografia augustea di Svetonio vi
è un’annotazione preziosa: Augusto, dopo aver riordinato Roma e la sua
amministrazione, fondò 28 colonie prevedendo per i decuriones il privilegio di una sorta di ‘voto a distanza’, cioè la
possibilità di partecipare alle elezioni dei magistrati, pur restando nella
propria città e inviando le tabellae
elettorali il giorno di convocazione dei comizi elettorali[45]. Non conosciamo del tutto questo
meccanismo di voto, un’ipotesi convincente è quella proposta da Claude Nicolet[46], ma ciò che interessa è che la città
assurge sempre a protagonista nella visione augustea. Nella città, territorio
della politica e motore dell’economia, «luogo preferenziale per lo svolgimento
dei diritti e dei doveri della nuova vita associata»[47], si affinavano forme e strumenti di
inquadramento e di amministrazione: catastazioni, censimenti, collocazione dei
cittadini nelle classi di censo, registri di cittadini e non, o di particolari
categorie[48].
Tutto ciò fu
uno dei lasciti più importanti del princeps,
raccolto più o meno costantemente dai suoi successori, di cui è significativo
il celebre discorso di Claudio per la lectio
senatus di alcuni notabili della Gallia
Comata (Tac. ann. 11, 23-25; CIL XIII, 1668 = ILS 212 = FIRA I, 43)[49]. Nessuno dubita che uno dei tratti
fondamentali e costanti della civilitas
romana consistette proprio «nella fondazione e nell’incremento di centri
cittadini»[50]. Persino in quel tornante di profonda
svolta della storia imperiale interpretata dalla dinastia severiana (in
particolar modo da Settimio Severo), troviamo solida conferma della stretta
continuità della linea politica con quella augustea, messa in atto in
particolare nel riordinamento dei territori nordafricani[51]. Non mi riferisco tanto alla creazione
della nuova provincia di Numidia, quanto all’accrescimento e all’arricchimento
urbanistico delle città esistenti, la concessione di statuti municipali e
coloniali e dello ius Italicum a
nuovi centri, quali fattori principali di sviluppo economico e demografico[52].
Se
un’iscrizione di Thugga del 313 d.C.
celebrava Costantino come restitutor urbium
(AÉ 2003, n. 2014)[53], altrettanto significativa è l’ideologia
della città espressa in un’iscrizione del III secolo d.C. di Tymandus nell’autocelebrazione di un
imperatore autore dell’accrescimento del numero e del prestigio delle città:
ILS 6090, ll. 8-15 (FIRA I, 92): Cum itaque ingenitum nobis | sit, ut per
universum orbem nostrum civi|tatum honor ac numerus augeatur eos|que eximie
cupere videamus, ut civitatis | nomen honestatemque percipiant, isdem | maxime
pollicentibus, quod apud se decu|rionum sufficiens futura sit copia,
cre|didimus advendum[54].
Ad ogni modo,
l’età felice dell’impero del II secolo d.C. – tale prevalentemente per le
classi elevate, per i ricchi, per gli intellettuali cui veniva assicurata da
sovrani tolleranti la libertà d’opinione[55], mentre lo fu meno per le classi
inferiori – era destinata a dissolversi presto. La fine traumatica dei Severi
fece cadere la patina dorata che tanto fascino ha esercitato anche sui moderni,
per far affiorare prepotentemente l’iceberg
della degenerazione politica di un impero in corsa verso la profonda frattura
tra ceti che si sarebbe presto consumata con tutta la sua portata deflagrante:
corruzione, cinismo, sete di ricchezza delle classi dirigenti centrali e
locali, privatizzazione delle strutture imperiali e del patrimonio pubblico,
forti spinte corporative determinarono una divaricazione sociale e culturale
sempre più ampia tra classi superiori e ceti popolari, e ancor più accentuata
dalle masse rurali. La separatezza fu ulteriormente aggravata dallo
sgretolamento della severità e della sobrietà, virtù secolari della nobiltà
centrale alla testa di Roma e di quelle locali delle comunità cittadine,
cagionato da poderose trasformazioni economiche e sociali.
Il grande
latifondo, attestatosi nella villa,
assunse progressivamente altre fattezze per delineare una nuova, diversa
entità. Alla funzione principale di produzione economica della villa romana si affiancava quella della
sicurezza e difesa del territorio declinato in un’ottica autarchica (o di autonomia)
in stretto rapporto con il disimpegno politico dell’aristocrazia senatoria
terriera (ripiegata sulla cura della rendita fondiaria e sempre più lontana
dalla tradizionale ideologia del bene comune), quali aspetti peculiari di una
embrionale morfologia feudale di un’incipiente economia curtense[56]. Tutti fenomeni in nuce ma rispetto ai quali nulla servì, se non forse soltanto a
rinviare di poco la crisi, la concessione generale della cittadinanza romana
con la constitutio antoniniana del
212 d.C., da cui restarono però escluse appunto le comunità non urbane e
ingenti masse rurali[57]. E proprio qui stava il problema
destinato ad aggravarsi. L’eredità augustea restava sul tappeto ma non più
raccolta. E allora si cominciò a guardare all’impero in maniera diversa, non
più come alla casa comune, non più al luogo dell’identità e della sicurezza, ma
a scorgervi un’entità lontana, ostile, vessatoria, persino nemica. Un
sentimento collettivo tanto più aggressivo quanto distante era la percezione
del potere imperiale che, a differenza di quanto accadeva in Oriente, nei
territori occidentali appunto andava frantumandosi.
In questo
confuso e fluido contesto, quel grande corpo sociale fatto di decurioni,
piccoli e medi contadini, artigiani, commercianti, militari (oggi ne parleremmo
in termini di classe media) in quei territori di fondamentale importanza
dell’impero e maggiormente aggrediti dalla crisi e dall’insicurezza sociale, si
frammentava, si polverizzava e conseguentemente sbiadiva il senso di sé, della
propria appartenenza all’impero, tanto da far credere, a un certo punto, del
tutto disperso, smarrito il sentimento comune, quel sentimento collettivo di
orgogliosa identità efficacemente sintetizzato da Erodiano per cui «Roma è dove
si trova l’imperatore» (Herod. 1.6.5)[58]. Non tardarono così a scoppiare, sempre
più frequentemente, rivolte come quella dei Bacaudae
(contadini celtico-romani autori di rilevanti sollevazioni) in una terra
importante e florida, comunque strategica per l’impero, come la Gallia.
Simili fenomeni
insurrezionali però abbandonarono presto il loro tratto di episodicità e di
valenza locale, per innestarsi in processi ancor più ampi avviati da gravi
focolai di tendenze separatiste, non solo espressione di forme illegittime del
potere e del suo esercizio, ma anche foriere di un fenomeno di disgregazione
dell’impero.
Per avere
un’idea della caotica frammentarietà del quadro politico e istituzionale basti
ricordare uno dei casi tra i più eclatanti e interessanti dei secoli
tardoantichi, denso di gravi pericoli per la vita dell’impero: l’usurpazione di
Postumo e della costituzione, per quanto di breve durata, del suo singolare Imperium
Galliarum. Il fenomeno secessionista, che aveva al proprio interno altri
elementi peculiari appunto come i Bacaudae, coprì circa un quindicennio
(260-274 d.C.) e, dopo Postumo, vide avvicendarsi, come figure altrettanto
effimere di imperatori delle Gallie, dapprima Mario, poi Vittorino, e infine
Tetrico. L’inquietante parentesi gallica costituì in effetti un vero pericolo per
la tenuta dell’Occidente imperiale:
per quanto di portata macroregionale, quell’esperienza secessionista interessò
dapprima le Gallie ma presto si estese, contaminando Spagna e Britannia. A
tutto ciò si aggiungeva la gestione della ‘questione Barbari’ – tra accoglienza
(strumentale a fini di difesa militare) e contrasto, versanti ideologici lungo
i quali si divideva profondamente l’opinione pubblica – che in larghi strati
della popolazione dell’impero produceva sentimenti di ostilità per una
percezione di insicurezza e pericolo da essa determinata. Insomma, l’impero
sembrava davvero sul punto di cedere.
Oggi, nella
formidabile e infuocata temperie mondiale che ci attraversa, con l’ansia
tracimante, e spesso strumentale, di sicurezza, sollevata da retrive pulsioni
nazionaliste definite da una suadente semantica espressioni di un’impellenza di
‘populismo’ o ‘sovranismo’ non è inutile continuare a riflettere, andando
indietro nel tempo, e comprendere se e come analoghi problemi della pressante contemporaneità
furono assunti e affrontati in quella straordinaria esperienza giuridica la cui
eredità oggi è prezioso patrimonio della cultura europea. Non c’è nessun
tentativo, cosa che apparirebbe quantomeno stravagante, di proporre la ricetta
augustea ai problemi della nostra attualità, ma semmai sottolineare che i
problemi fondamentali dell’uomo, per quanto possano mutare nella forma, restano
gli stessi o assai simili e alla cui soluzione dovranno provvedere la politica
e la scienza giuridica fino a quando saranno potenti e occuperanno un posto
centrale nel governo e, più in generale, nell’esistenza umana. È questo
piuttosto l’insegnamento da trarre dalle scienze storiche e dunque dalla storia
del diritto, oggi sotto attacco, e da trasmettere alle nuove generazioni di
studenti e studiosi, affermandone appunto la somma ‘utilità’ per le stesse
scienze giuridiche in generale, anch’esse oggi messe a repentaglio da quella
che non può che definirsi un’autentica ‘età di ferro’ dell’ideologia
tecnocratica e tecnologica.
In conclusione:
sovranità popolare, legge, valori etici, selezione della classe dirigente su
merito e virtù, saperi, diritto, identità e cittadinanza, strumenti di governo,
pluralismo normativo, furono tutti ingredienti della ‘vicenda’ politica e istituzionale
dell’esperienza statale e giuridica di Roma; una lezione da cui possiamo ancora
oggi utili trarre indicazioni ma di cui, purtroppo, la nostra Vecchia Europa
rischia di perdere la memoria. E purtuttavia, proprio in tempi di crisi formidabili, che
recano in sé anche una crisi, forse irreversibile, del modello occidentale di
democrazia, appare quasi come un conforto, se non un auspicio o fors’anche un
relitto a cui aggrapparsi, una stilla pura di pensiero del Geist di
Rudolph von Jhering: «Nessuna cosa veramente grande perisce in questo mondo»[59].
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Recebido em: 16 mar. 2020.
Aceito em: 28 abr. 2020.
* Si tratta del testo modificato e
approfondito della relazione dal titolo “Sovranità, cittadinanza, persona e
territorio in un impero preglobale. L’esperienza augustea”, tenuta al Convegno “Le sovranità
nell’era della post globalizzazione”,
Foggia, 1 marzo 2019.
[1] Tac. ann.
1, 8, 5: Remisit Caesar adroganti
moderatione, populumque edicto monuit ne, ut quondam nimiis studiis funus divi
Iulii turbassent, ita Augustum in foro potius quam in campo Martis, sede
destinata, cremari vellent.
[2] Per un quadro della sterminata letteratura
rimando a O. Licandro, Augusto e la res publica imperiale. Studi
epigrafici e papirologici, Torino 2018.
[3] L. Capogrossi
Colognesi, Padroni e contadini
nell’Italia repubblicana, Roma 2012, 163.
[4] Un quadro organico in P. Cerami – A. Petrucci, Diritto
commerciale romano. Profilo storico, Torino 2010.
[5] L. Capogrossi
Colognesi, Padroni e contadini,
cit., 164.
[6] Per un quadro d’insieme vedi O Licandro, Dalla lex Claudia de quaestu senatorum alle leges repetundarum ovvero
del conflitto di interessi nell’antica Roma, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di L. Labruna, IV, Napoli
2007, 2815 ss.
[7] A. Schiavone,
La storia spezzata. Roma antica e
Occidente moderno, Roma-Bari 2002, 205.
[8] Viene considerato un deciso fautore Plin. nat. hist. 27, 1, 2-3, proponendo
addirittura un nesso causale tra dèi, natura, pace e dominio romano. Sul tema,
oltre ai classici M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero
romano, Firenze 1980; e F. De
Martino, Storia economica di Roma
antica, II, Firenze 1979; nuovi spunti in L. Capogrossi Colognesi, A
Provocation, in Rivista di Storia
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Cascio, L’economia imperiale e la
svolta augustea, in AA.VV., Augusto e
la costruzione del principato. Atti del Convegno (Roma, 4-5 dicembre 2014),
Roma 2017, 327 ss.
[9] C. Schmitt,
Il nomos della terra nel diritto
internazionale dello «jus publicum europaeum», Milano 1991. Ma sul tema con
approcci diversi A. Bancalari
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L’Impero greco romano. Le radici del mondo globale, Milano 2007.
[10] Sul tema si rinvia ai più recenti
contributi di F. Russo,
L’odium regni a Roma tra realtà politica e finzione storiografica, Pisa,
2015, passim; F. Zuccotti, Sacramentum civitatis. Diritto costituzionale e ius sacrum nell’arcaico
ordinamento giuridico romano, Milano 2016, 26 ss.
[11] Su Polibio si veda il recentissimo libro
di G. Zecchini,
Polibio. La solitudine dello storico,
Roma 2018.
[12] Su cui vedi M. Miceli, ‘Governo misto’, quartum genus rei publicae e
separazione dei poteri, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione
(dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.1, Napoli,
2006, 659 ss.; P. Cerami
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Prospettive romane e moderne, Torino 2018, 64 ss.; cfr. O. Licandro,
Cicerone alla corte di Giustiniano.
“Dialogo sulla scienza politica” (Vat. gr. 1298). Concezioni e dibattito sulle
formae rei publicae nell’età dell’assolutismo imperiale, Roma, 2017, passim.
[13] O.D. Cordovana,
I Severi, in AA.VV., Roma universalis. L’impero e la dinastia
venuta dall’Africa, Milano 2018, 36 (catalogo della mostra).
[14] Sulla nuova integrazione di RGDA 34, 1-3 e per il dibattito
storiografico dispiegatosi mi limito a rimandare a O. Licandro, Augusto e la
res publica imperiale, cit., passim.
[15] Cic. de
inv. 1, 68.
[16] Svet. Aug.
28, 1-4.
[17] Si trattò di una concezione talmente
radicata da essere pienamente trasmessa alle esperienze legislative
romano-germaniche; si veda persino il caso dell’Editto del re longobardo
Rotari; Ed. Roth. cap. 386.
[18] Su Ovidio, si legga il bel libro di F Ghedini, Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo, Roma 2018; e i vari
contributi raccolti nel catalogo della mostra AA.VV., Ovidio. Amori, miti e altre storie, Roma 2018.
[19] SEG IV, 490 (= OGIS II, 458).
[20] Mi limito a segnalare i contributi di S. Roncati, Caio Ateio Capitone e i Coniectanea (Studi su Capitone, I), in SDHI 71 (2005) 271 ss.; E. Stolfi, ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra
Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp lib. Sing. ench.), in Studi per G. Nicosia, VIII, Milano 2007,
57 ss.; P. Buongiorno, Ateii Capitones, in Iura 59 (2011) 195 ss.; Id.,
C. Ateius Capito. Appunti per una
biografia politica, in Scritti per A.
Corbino (a cura di I. Piro), I, Tricase (LE) 2016, 413 ss.; O. Licandro, Augusto e la res publica imperiale, cit., passim, praecipue 291 ss.
[21] Da ultimo S. Roda, Imperium sine
fine e i confini dell’Impero tra ideologia, propaganda e Realpolitik, in
AA.VV., Roma e i ‘diversi’. Confini
geografici, barriere culturali, distinzioni di genere nelle fonti letterarie ed
epigrafiche fra età repubblicana e Tarda Antichità, a cura di C. Giuffrida,
M. Cassia e G. Arena, Milano 2018, 73 ss.
[22] Aspetto invece prediletto da A.S. Lewin, Popoli, terre, frontiere dell’Impero romano. Il vicino Oriente nella
tarda antichità. I: Il problema militare, Catania 2008, 109 ss.
[23] F.J. Turner,
La frontiera nella storia americana,
Bologna 1975, 31 ss.; O. Lattimore,
La frontiera. Popoli ed imperialismi alla
frontiera tra Cina e Russia, Torino 1970, 49 ss.; J.B. Ward-Perkins, Frontiere politiche e frontiere culturali, in AA.VV., La Persia e il mondo romano, Accademia
dei Lincei, Quaderno 76, Roma 1966, 395 ss.; M. Mazza, Identità etniche
e culture locali sulla frontiera dell’Eufrate (II-IV sec. d.C.). Uno studio sui
contatti culturali, in Id., Cultura guerra e diplomazia nella Tarda
Antichità. Tre studi, Catania 2005, 13 ss.
[24] N. Irti, Norma e luoghi.
Problemi di geo-diritto, Roma-Bari 2002, 3.
[25] Divisio
orbis terrarum 15: orbis dividitur tribus nominibus: Europa,
Asia, Libya vel Africa. Quem Divus Augustus primus omnium per
chorographiam ostendit.
[26] C. Nicolet,
L’inventario del mondo. Geografia e
politica alle origini dell’impero romano, Roma-Bari 1989.
[27] D. 50.1.5; D. 50.1.6.2; D. 50.1.27.2.
[28] D. 47.10.5pr.-5.
[29] Su questi capita rinvio per tutti a F. Lamberti,
«Tabulae Irnitanae». «Municipalità» e
«Ius Romanorum», Napoli 1993, passim.
[30] Su questi testi vedi principalmente O. Licandro, Domicilium e incolae tra repubblica e principato, in AA.VV., Étrangers dans la cité romaine. «“Habiter
une patrie”: des incolae de la République aux peuples fédérés du Bas-Empire». Actes du Colloque de Valenciennes (14-15
octobre 2005), Rennes 2007, 66 ss.; Id.,
Pomponio e L’incola. Osservazioni
su D. 50.16.239.2 (Pomp. l. sing. ench.) alla luce di Lex Urs. cap. 98 e Lex
Irn. cap. 83, in fil…a. Scritti
per Gennaro Franciosi, a cura di
F.M. D’Ippolito, II, Napoli 2007, 1381 ss.; e L. Gagliardi, Osservazioni
in tema di domicilio degli incolae. La distinzione tra incolae di città e incolae
di campagna, in AA.VV., Gli Statuti
Municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba), Pavia 2006, 647
ss.
[31] Cfr. Tac. Agr. 21.
[32] M. Weber,
Economia e società. L’economia in
rapporto agli ordinamenti e alle forze sociali. La città (a cura di W.
Nippel), Roma 2003, 3 s., osservava come nella Russia dei suoi tempi ci fossero
villaggi con diverse migliaia di abitanti di gran lunga più grandi di alcune
città antiche, abitate soltanto da qualche centinaio di individui.
[33] V. Giuffrè,
La struttura politico-costituzionale e il
territorio, in AA.VV., Città
territorio e diritto privato nei primi due secoli dell’impero. Atti del
convegno internazionale di diritto romano, Copanello 5-8 giugno 2002 (a cura di
F. Milazzo), Soveria Mannelli 2010, 26, ha giustamente sottolineato lo scarso
valore tecnico sotto il profilo istituzionale di questa tipologia di
insediamenti, da un lato, refrattari «alla latinizzazione/romanizzazione
amministrativa dell’area» e, dall’altro, ritenuti da Roma inadeguati «a
sostenere gli oneri dell’autogoverno, e inaffidabili nell’esazione tributaria».
[34] Sul retore si rinvia a Elio Aristide, A Roma (traduzione e commento a cura di F. Fontanella, introduzione
di P. Desideri), Pisa 2007; e i saggi del volume collettaneo AA.VV., Elio Aristide e la legittimazione greca
dell’impero di Roma, a cura di P. Desideri e F. Fontanella, Bologna 2013.
[35] E. Lo
Cascio, Roma come «mercato comune
del genere umano», in AA.VV., Elio
Aristide e la legittimazione greca dell’impero di Roma, a cura di P.
Desideri e F. Fontanella, Bologna 2013, 193.
[36] Sulla Tabula
Banasitana vedi per tutti E. Volterra,
La Tabula Banasitana. A proposito di una
recente pubblicazione, in BIDR 77
(1974) 407 ss.; E. Migliario, Gentes foederatae. Per una riconsiderazione
dei rapporti romano-berberi in Mauretania Tingitana, in RAL 10 (1999) 427 ss.; C. Giachi, La Tabula Banasitana: cittadini e cittadinanza ai confini dell’Impero,
in AA.VV., Civis/Civitas, Cittadinanza
politico-istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età
moderna. Atti del Seminario internazionale di Siena-Montepulciano, 10-13
luglio 2008 (a cura di C. Tristano, S. Allegria), Montepulciano (SI) 2009, 17
ss.
[37] G. Luraschi,
Foedus Ius Latii Civitas. Aspetti
costituzionali della romanizzazione in Transpadania, Padova 1979; S. Barbati, Gli studi sulla cittadinanza romana prima e dopo le ricerche di Giorgio
Luraschi, 175 ss. [= in RDR 12
(2012) (www.ledonline.it)], e bibliografia ivi citata.
[38] A. Baricco,
The Game, Torino 2018; The Game Unplugged, Torino 2019. Ma si
veda anche Th. Hylland Eriksen, Fuori controllo. Un’antropologia del
cambiamento accelerato, Torino 2017; F. Fukuyama,
Identità. La ricerca della dignità e i
nuovi populismi, Milano 2019; Ch.
Guilluy, La società non esiste. La
fine della classe media occidentale, Roma 2019.
[39] G. Purpura,
Edicta Augusti ad Cyrenenses (6/4 a.C.), in AA.VV., Revisione ed
integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori.
I. Leges (a cura di G. Purpura), Torino 2012, 433 ss., praecipue 444 ss.
[40] A. Raggi,
Seleuco di Rhosos. Cittadinanza e
privilegi nell’Oriente greco in età tardo-repubblicana, Pisa 2006, 94 ss.;
O. Licandro, Doppio domicilio e doppia cittadinanza, cit., 168 ss.
[41] In tal senso E. Lo Cascio, Forme
dell’economia imperiale, in AA.VV., Storia
di Roma. 2. L’impero mediterraneo. II. I principi e il mondo (dir. A.
Schiavone), Torino 1991, 358 ss. Si legga pure Id., La “New
Institutional Economics” e l’economia imperiale romana, in AA.VV., Storia romana e storia moderna. Fasi in prospettiva (a cura di M. Pani), Bari 2005, 313 ss.; Id., The Early Roman
Empire: the State and the Economy, in AA.VV., The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World (ed. W. Scheidel, I. Morris, R. Saller), Cambridge
2007, 619 ss.
[42] E. Gabba,
Dallo stato-città allo stato municipale,
in AA.VV., Storia di Roma. 2. L’impero
mediterraneo. I. La repubblica imperiale (dir. A. Schiavone), Torino 1990,
697 ss. Ma si vedano anche gli studi dedicati al tema, contenuti in due
raccolte, di U. Laffi, Studi di storia romana e di diritto,
Roma 2001; Id., Colonie e municipi nello Stato romano,
Roma 2007.
[43] L. Capogrossi
Colognesi, La genesi dell’impero
municipale, in Roma e America.
Diritto romano comune 18 (2004) 243 ss. [= in Id., Scritti scelti,
II, Napoli 2010, 939 ss.].
[44] E. Gabba,
L’impero di Augusto, in AA.VV., Storia di Roma. 2. L’impero mediterraneo.
II. I principi e il mondo (dir. A. Schiavone), Torino 1991, 26 s.; vedi
anche Id., La rifondazione di Salapia, in Athenaeum
71 (1983) 514 ss.; Id., Le città italiche del I sec. a.C. e la
politica, in RSI 98 (1986) 653
ss.; Id., Municipium Augustum Veiens, in Athenaeum
86 (1988) 203 s.; Id., I
municipi e l’Italia augustea, in AA.VV., Continuità e trasformazioni
fra repubblica e impero. Istituzioni, politica, società, Bari 1991, 69-82;
poi in Italia romana, Como 1994, 133-143.
[45] Svet. Aug.
46, 1: Ad hunc modum urbe urbanisque
rebus administratis Italiam duodetriginta coloniarum numero eductarum a se
frequentavit operibusque ac vectigalibus publicis plurifariam instruxit, etiam
iure ac dignatione urbi quodam modo pro parte aliqua adeaquavit excogitato
genere suffragiorum, quae de magistratibus urbicis decuriones colonici in sua
quisque colonia ferrent et sub die comitiorum obsignata Romam mitterent.
[46] C. Nicolet,
L’inventario del mondo, cit., 240 ss.
[47] E. Gabba,
Dallo stato-città allo stato municipale,
cit., 709.
[48] Interessante la notizia del commentarius civitate Romana donatorum
contenuta nel diploma AÉ 1999, n. 1250, ll. 3-10: Descriptum et recognitum ex petitione
rescripta diplomi id quod infra scriptum est: Descriptum et recognitum ex
commentario civitate donatorum divi Augusti et Tiberii Caesaris Augusti et C.
Caesaris et divi Claudi et Neronis et Galba et divorum Augustorum Vespasiani et
Titi et Caesaris Domitiani et divorum Augustorum Nervae et Traiani Parthici et
Traiani Hadriani Antonini Pii (su cui vedi R. Frei-Stolba, H. Lieb, Un
diplôme civil: le fragment de Carnuntum, in ZPE 143 [2003] 243 ss.; da ultimo V. Marotta, Doppia
cittadinanza e pluralità degli ordinamenti cittadini. La Tabula Banasitana e le
linee 7-9 del Papiro di Giessen 40 col. I, in AG
236 [2016] 471 s.). Cfr. ILMaroc 94, ll. 22. In generale, vedi O. Behrends, Die Rechtsregeln der Militärdiplome und das die Soldaten des Prinzipats
treffende Eheverbot, in AA.VV., Heer
und Integrationspolitik (hrsg. W. Eck, H. Wolff), Köln-Wien 1986, 123 ss.
[49] Altrettanto sterminata è la letteratura
sulla Tavola di Lione, per cui mi limito ai seguenti scritti e da essi risalire
ad ulteriore bibliografia: Ph. Fabia, La
Table Claudienne de Lyon, Lyon 1929; P. Sage,
La Table claudienne et le style de
l’empereur Claude: essai de réhabilitation, in REL 58 (1980) 274 ss.; P. Buongiorno,
Senatus consulta Claudianus temporibus
facta. Una palingenesi delle deliberazioni senatorie
dell’età di Claudio (41-54 d.C.), Napoli 2010, 261 ss.; R. Turcan,
Claude de Lyon: un précurseur, in BIDR 107 (2013) 21 ss.
[50] Così S. Mazzarino,
L’Impero romano, II, Roma-Bari 1988,
754; vedi anche M. Felici, Profili storico-giuridici del pluralismo
cittadino in Roma antica, Roma 2013, 51 ss. Per altri aspetti si legga F.P.
Casavola, Il concetto di “Urbs Roma”; giuristi e imperatori romani, in Labeo 38 (1992) 20 ss. [= in Id., Sententia legum tra mondo antico e moderno. I. Diritto romano,
Napoli 2000, 355 ss.].
[51] In particolare vedi O.D. Cordovana, Segni e immagini del potere tra antico e tardoantico. I Severi e la
provincia Africa proconsularis, Catania 2007; G. Poma, Nota su CIL,
VIII, 9228: populis novis ex Africa inlatis, in AA.VV., Roma e i ‘diversi’. Confini geografici,
barriere culturali, distinzioni di genere nelle fonti letterarie ed epigrafiche
fra età repubblicana e Tarda Antichità, a cura di C. Giuffrida, M. Cassia e
G. Arena, Milano 2018, 26 ss.
[52] Troppo ideologicamente schematica è la
visione di M.I. Rostovtzeff, Le classi rurali e le classi cittadine
nell’Alto impero, in Id., Per la storia economica e sociale del mondo
ellenistico e romano. Saggi scelti, a cura di T. Gnoli e J. Thornton,
Catania 1995, 167 ss., nel leggere le riforme severiane nella chiave
dell’antagonismo tra borghesia e contadini.
[53] M. Felici,
Profili storico-giuridici del pluralismo
cittadino in Roma antica, Roma 2013, 83 ss.; in generale vedi anche G.A. Cecconi, La città e l’impero. Una storia del mondo romano dalle origini a
Teodosio il Grande, Roma 2012, 285 ss.
[54] «Poiché ci è congenito desiderare per
tutto il nostro ecumene l’accrescimento del prestigio e del numero delle città
e poiché vediamo che costoro [gli abitanti di Tymandus in Pisidia] desiderano nobilmente di ottenere il nome e la
dignità di città, e dal momento che gli stessi assicurano che avranno una
quantità di decurioni locali, abbiamo deciso di rispondere positivamente».
[55] Così
Nicola Palazzolo, in O. Licandro
– N. Palazzolo, Roma e le sue
istituzioni dalle origini a Giustiniano, Torino 2019, 237, che sottolinea come
quel «secolo di pace […] ebbe il suo contrappeso in un quasi totale immobilismo
nella vita politica, sociale e culturale, che raggiunse l’acme durante il
principato di Antonino Pio».
[56] Sui profondi cambiamenti della Tarda
Antichità si rinvia a P. Anderson,
Dall’antichità al feudalesimo, Milano
1978; AA.VV., Società romana e impero
tardoantico. I. Istituzioni, ceti, economie, a cura di A. Giardina,
Roma-Bari 1986; F. De Martino, Uomini e terre in Occidente. Tra tardo
antico e medioevo, Napoli 1988.
[57] Nonostante l’ingente letteratura, credo
ancora meritevole di riflessione il tema attualissimo della cittadinanza e
della sua concessione universale, su cui vedi il mio recente contributo Doppio domicilio e doppia cittadinanza.
Strumenti di governo ed egemonia politica tra ‘leges’ e ‘prudentes’ nell’età
repubblicana, in AUPA 61 (2018)
145 ss. (segmento di un itinerario di ricerca in corso). In generale,
limitandomi alla bibliografia più recente, si legga T. Spagnuolo Vigorita, Cittadini
e sudditi tra II e III secolo, in AA.VV., Storia di Roma. III. L’età tardoantica. I. Crisi e trasformazioni,
dir. A. Schiavone, Torino 1993, 5 ss.; Id.,
Città e impero. Un seminario sul
pluralismo cittadino nell’impero romano, Napoli 1996; V. Marotta, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una
sintesi, Torino 2009, 101 ss.; Id.,
Tre riflessioni sulla cittadinanza: da
Roma antica al mondo attuale, in IAH
5 (2013) 53 ss.; Id., Egizi e cittadinanza romana, in Cultura giuridica e diritto vivente 1
(2014) 1 ss.; Id., Doppia cittadinanza e pluralità degli
ordinamenti cittadini, cit., 461 ss.; G. Purpura,
Constitutio Antoniniana de civitate,
in AA.VV., Revisione ed integrazione dei
Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges (a
cura di G. Purpura), Torino 2012, 695 ss.; Id.,
Il P. Giss. 40, I, in IAH 5 (2013) 73 ss.; A. Torrent, La Constitutio Antoniniana. Reflexiones sobre el Papiro Giessen 40 I,
Madrid 2012; C. Corbo, Constitutio Antoniniana. Ius Philosophia
Religio, Napoli 2013; A. Mastino,
Constitutio Antoniniana: la politica
della cittadinanza di un imperatore africano, in BIDR 107 (2013) 37 ss.; A. Palma,
Note in tema di cittadinanza romana e
sovranità, in Koinonia 38 (2014)
279 ss.
[58] Sul punto L. Mecella, Tra centro e
periferia: πόλεμοι e άποστάσεις durante il regno di Massimino il Trace,
in AA.VV., Erodiano tra crisi e
trasformazioni (a cura di A. Galimberti), Roma 2017, 187 ss.
[59] R. von
Jhering, Geist des römischen Rechts auf den
verschiedenen Stufen seiner Entwicklung,
I, Leipzig 1907, 13.